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Odontologo forense: figura di primo piano per i DVI (identificazione delle vittime di disastri)

Dopo l’attacco terroristico alle Torri gemelle di New York, medici legali e odontologi forensi furono a lungo impegnati nell’identificazione delle vittime (© freeimages.com).
C. Milani

C. Milani

gio. 20 novembre 2014

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Sono passate solo poche settimane dal tredicesimo anniversario di un evento che ha cambiato il mondo, un attentato terroristico che uccise migliaia di persone. Erano le 8.46 della mattina dell’11 settembre 2001, quando ampie colonne di fumo si innalzarono sui cieli di New York.

Le vittime, tra coloro che erano presenti all’interno delle Torri Gemelle e i passeggeri dei due aerei di linea dirottati, furono più di 2700. Proprio per il gran numero di persone coinvolte, questo genere di eventi è chiamato “disastro di massa” e mette in atto un protocollo piuttosto consolidato a livello internazionale che prevede precise sequenze di operazioni da attuarsi con l’impiego di professionalità specifiche operanti nel settore forense. Tale protocollo è noto con il nome di DVI: Disaster Victim Identification.

L’attentato dell’11 settembre fu uno fra i più complessi casi di DVI, nel quale si attuarono entrambe le tipologie di approccio: quella in cui vi era una lista nota e ben definita di soggetti da ricercare, la lista dei passeggeri dell’American e della United Airlines; e quella, più ostica, costituita da un insieme non quantificabile di persone, fra dipendenti e persone di passaggio dai due edifici. Persone di cui non era certa la presenza in quel giorno a quell’ora, e che solo la segnalazione del mancato ritorno a casa o del non contatto con la famiglia permise di registrare fra le potenziali vittime da identificare.

Le tre figure professionali che da un punto di vista tecnico gestiscono un DVI sono l’odontologo forense, gli esperti di impronte digitali e gli esperti del DNA. È importante sottolineare, ancora una volta, il ruolo determinante del primo nell’identificazione delle vittime. Le particolarità della dentatura, la morfologia, la presenza o l’assenza di elementi dentari, unitamente alla sede e alla tipologia degli interventi odontoiatrici, rendono ogni bocca statisticamente unica. I denti, inoltre, rappresentano l’elemento identificativo più resistente ai diversi fattori traumatici e termici e ciò li rende pressoché sempre utilizzabili, se non addirittura unici testimoni dell’identità.

Esempio eclatante della DVI fu il rogo del 24 marzo 1999, quando un camion autoarticolato carico di margarina prese fuoco nel traforo del Monte Bianco: un incendio durato 53 ore. La temperatura raggiunse livelli superiori ai 1300 gradi, carbonizzando ogni forma di vita. L’azione del fuoco e del fumo uccise 39 persone fra cui 15 italiani. Sui corpi nessuna impronta digitale, niente DNA, solo i denti, unici reperti utili, resistettero all’inferno e consentirono l’identificazione. Ogni identificazione, che sia dattiloscopica, dentale o genetica, necessita di un termine di confronto. I dati post mortem tratti dall’autopsia o dall’analisi dei resti devono essere confrontati con quelli cosiddetti ante mortem, recuperabili dalle banche dati (l’unica attualmente operativa in Italia è quella dell’AFIS per le impronte digitali) o da informazioni fornite dai familiari delle potenziali vittime (oggetti, panoramiche dentali ecc.). Non sempre, però, la raccolta di queste fonti è attuabile: cartelle cliniche non standardizzate, radiografie e panoramiche dentali smarrite o irreperibili rischiano di inficiare ogni confronto. Ma quando è possibile, l’identificazione dentale è attuabile in pochi minuti, se effettuata da odontologi forensi esperti.

A seguito dello Tsunami che colpì la Tailandia nel 2004 – altro disastro di massa – la Danimarca, uno dei pochi Paesi dotati di una banca dati odontoiatrica, fu in grado di identificare più del 70% delle proprie vittime, grazie alla comparazione dentale e senza necessità di altre metodiche. Purtroppo, però, ancor oggi l’Italia non è dotata di veri e propri DVI team con professionisti esperti, reclutati necessariamente fra i “civili”, non essendovi fra militari e forze dell’ordine alcune specializzazioni reperibili.
L’estate ha portato all’attenzione della cronaca l’incidente fra due aerei Tornado, avvenuto nei pressi di Ascoli Piceno, che ha causato la morte di 4 piloti dell’aeronautica militare. L’evento, per certi versi e su scala assai ridotta, può essere equiparato a un DVI. In generale, un disastro aereo rende spesso il corpo carbonizzato e/o frammentato, pertanto difficilmente riconoscibile de visu e comporta un’identificazione più lunga e complessa. Tuttavia, rispetto alla popolazione civile, i militari sono dotati di una notevole quantità di materiale radiografico d’immediato reperimento. In questi casi la presenza di un esperto odontologo forense risulta necessaria a partire dal sopralluogo, essendo in grado di recuperare i resti utili dispersi nel territorio (compresi frammenti di elementi dentali e protesici), salvaguardando le fragili strutture corporee prima del trasporto del corpo, nonché di eseguire un’accurata autopsia dentale e procedere a un confronto immediato tra i dati dentali rilevati con quelli ante mortem. Tutti atti eseguibili in poche ore.

Purtroppo ancor oggi le istituzioni, anche le più blasonate, sembrano mostrare scarsa sensibilità per la tipologia di approccio identificativo. Se da un lato i DVI team italiani delle forze dell’ordine non includono al loro interno l’odontologo forense, o non sono assistiti da specialisti civili, dall’altro la stessa autorità giudiziaria non sembra sentire la necessità di una simile presenza e, di conseguenza, nella maggioranza dei casi questa figura manca, e clamorosamente. Non a caso il rogo sotto il Monte Bianco fu gestito interamente dai francesi. Tale evento non è stato sufficiente per sensibilizzare il sistema italiano, giacché sulla scena di disastri nazionali, più o meno estesi, ancor oggi, ma troppo raramente, gli odontologi forensi vengono chiamati.

In realtà i denti sono l’elemento più resistente e quasi sempre utilizzabile, mentre le impronte digitali hanno solitamente una permanenza limitata nel tempo o potrebbero essere distrutte dall’incidente (dalla carbonizzazione per esempio). Anche il DNA presenta criticità tecniche: si degrada rapidamente ad alte temperature e la presenza di commistioni e deprezzamenti di corpi proiettati nell’ambiente comporterebbe un maggior numero di analisi e misture di difficile interpretazione; il tutto si riassume in tempi e costi nettamente più elevati, fattore non trascurabile in tempi di spending review.

In realtà i protocolli internazionali prevedono l’impiego della dattiloscopia e dell’odontologia forense come primi approcci necessari e ricorrono solo in ultima battuta alla genetica forense (determinante in moltissimi settori della criminalistica), e comunque su un numero di campioni già filtrato, limitando l’esame del DNA solo ai soggetti cui le prime due discipline non abbiano potuto fornire risultati o garanzie sufficienti per un’identificazione o un’esclusione certa (riscontro altrettanto importante). La prassi, recepita da molti Paesi, consente di snellire i processi identificativi senza intasare i laboratori di genetica forense (con conseguente aumento dell’arretrato) da richieste superflue. L’augurio è che anche in Italia nei casi di DVI l’odontologia forense acquisti quella dignità che già ampiamente riconosciuta in molti Paesi del mondo.

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