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Quando l’infezione rientra fra i rischi lavorativi e assistenziali dello studio odontoiatrico

Biofilm adeso alle pareti interne dei condotti idrici del riunito dentale e ingrandimento.
C.M. Zotti, S. Ditommaso, M. Giacomuzzi

C.M. Zotti, S. Ditommaso, M. Giacomuzzi

mer. 7 ottobre 2015

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La domanda che ci si deve porre quando si esamina un evento sanitario è: «È un problema di salute?». Questo significa definire una soglia (di quantità, di gravità, di qualità) al di sopra della quale una situazione non è compatibile con la salute umana e necessita di soluzioni più o meno drastiche, rapide, efficaci a tempi brevi ed efficienti, in un contesto dove le risorse vanno scarseggiando.

La ricerca di soluzioni efficaci, efficienti, fattibili passa ovviamente attraverso una disponibilità di tecnologie con evidenza di efficacia, studiate scientificamente, con risultati pubblicati su riviste attendibili, provate sul campo oltreché nei laboratori, e condivise dalla comunità di operatori coinvolti nel problema.
Allora la domanda che ci poniamo, «la legionella è un problema per l’odontoiatria?», passa attraverso una serie di valutazioni di tipo epidemiologico, e le soluzioni all’eventuale problema – quando ne sia dimostrata l’esistenza – devono passare attraverso l’evidenza scientifica.
Gli aspetti noti da un punto di vista microbiologico, clinico e igienistico sono i seguenti: la legionella è un bacillo Gram-negativo, aerobio, asporigeno, generalmente mobile per la presenza di uno o più flagelli. Ne sono conosciute 52 specie suddivise in oltre 70 sierogruppi, circa la metà delle quali risultano patogene opportunistiche; 20 specie sono state individuate come patogene per l’uomo, e di queste L. pneumophila è responsabile del 90% dei casi; in particolare, L. pneumophila di sierogruppo 1 è la maggiormente implicata nella patologia umana (80% dei casi) seguita da L. pneumophila sg. 3 (2-3%), e da altri sierogruppi (5-6%) di L. pneumophila.
Vive in ambienti acquatici naturali e artificiali; la trasmissione interumana della legionella non è mai stata dimostrata, pertanto l’unica sorgente di infezione a oggi riconosciuta è rappresentata dall’ambiente. Non è nota la dose minima infettante per l’uomo.
L’infezione, che può decorrere anche in modo asintomatico, si presenta in due forme cliniche: la febbre di Pontiac e la malattia del legionario.
La prima, dopo una incubazione di 24/48 ore si manifesta con un quadro simil-influenzale senza interessamento polmonare.
La seconda, dopo una incubazione da 2 a 10 giorni dà luogo a una polmonite interstiziale non necessariamente con manifestazioni extra polmonari. Fattori predisponenti la malattia sono l’età avanzata, la presenza di malattie croniche e l’immunodeficienza. Il rischio di ammalarsi è inoltre correlato al grado di intensità dell’esposizione, dipendente dalla quantità di legionelle presenti e dal tempo di esposizione, dalla virulenza e dalla carica infettante dei singoli ceppi.
L’esito della malattia è condizionato da caratteristiche individuali e da patologie preesistenti che spiegano la diversa suscettibilità alla malattia da parte di soggetti esposti alla stessa fonte di contagio. La letalità media è del 10%, con picchi fino al 30-50% nei casi di origine nosocomiale, e raggiunge l’80% nei soggetti immunocompromessi o non trattati.
La temperatura condiziona in modo importante la sopravvivenza del batterio: legionella sopravvive a 20-25 °C senza replicarsi; ha una temperatura ottimale di replicazione a 25-42 °C; può essere sofferente e senza replicazione a temperature di 45-50 °C; a 50-60 °C muore in 2 ore il 90% delle cellule batteriche; a temperature > 60 °C si osserva la morte del 90% delle cellule in 2 minuti.

La capacità di sopravvivenza del germe è legata alla presenza nell’ambiente (e in particolare negli impianti idrici) del biofilm (aggregazione eterogenea di microrganismi, sostanze inorganiche, matrice polimerica), alla temperatura dell’acqua (25-45 °C), a parametri di natura chimica quali pH, presenza di cloro, ferro, rame; legionella presenta una spiccata predilezione per gli impianti idrici che presentano rami morti o sezioni soggette a stagnazione. La presenza di punti di ristagno dell’acqua, associata a deboli clorazioni o riscaldamenti non eccessivi (fino a 50 °C in caso di acqua distribuita calda), costituiscono situazioni ideali per l’indovarsi e la moltiplicazione delle cellule di legionella provenienti dalla rete idrica di alimentazione. L’acqua potabile che giunge agli impianti idrici nella comunità contiene poche unità di legionella per metro cubo, ma la persistenza del serbatoio ambientale e le condizioni che si creano storicamente negli impianti rendono molto difficile perseguire l’eliminazione della legionella dagli impianti idrici e delle torri di raffreddamento degli impianti di condizionamento.
La legionellosi è normalmente acquisita per via respiratoria mediante inalazione, aspirazione o microaspirazione di aerosol contenente legionella, oppure di particelle derivate per essiccamento. Le goccioline si possono formare sia spruzzando l’acqua sia facendo gorgogliare aria in essa, o per impatto su superfici solide (piscine e vasche da idromassaggio, fontane decorative, sistemi di irrigazione e umidificazione ecc.). La pericolosità di queste particelle di acqua è inversamente proporzionale alla loro dimensione; le gocce di diametro inferiore a 5 µ arrivano più facilmente alle basse vie respiratorie.
Da un punto di vista epidemiologico, l’entità del problema è monitorato da sistemi di sorveglianza nazionali e internazionali, nati con l’obiettivo di:

  • monitorare la frequenza di legionellosi sia dal punto epidemiologico che clinico, con particolare attenzione ai fattori di rischio per l’acquisizione della malattia;
  • identificare eventuali variazioni nell’andamento della malattia;
  • identificare cluster epidemici di legionellosi dovuti a particolari condizioni ambientali al fine di evidenziare i fattori di rischio e interrompere la catena di trasmissione.

I sistemi di sorveglianza hanno condiviso le definizione di caso (per l’Europa “Decisione della Commissione Europea” dell’8 agosto 2012); poiché non vi sono sintomi, o segni, o combinazioni di sintomi specifici della legionellosi, la diagnosi deve essere confermata dalle prove di laboratorio. In Italia la notifica di malattia infettiva è effettuata dal medico che fa diagnosi di caso (D.M. 15/12/90) ed è integrata dal sistema di sorveglianza nazionale (Circolare 400.2/9/5708 del 29/12/93 e sue successive modifiche) con una inchiesta epidemiologica che indaga anche i possibili fattori di rischio.
Parallelamente al sistema di sorveglianza dei casi italiani, nell’ambito dell’European Working Group for Legionella Infections (EWGLI) è nato nel 1986 un programma di sorveglianza internazionale delle legionellosi nei viaggiatori; dal 2010 questa rete è detta European Legionnaires’ Disease Surveillance Network (ELDSNet) ed è coordinata dall’ECDC. Tale programma, al quale aderisce anche l’Italia, raccoglie informazioni relative ai casi di legionellosi associati ai viaggi che si verificano nei cittadini dei Paesi europei partecipanti al programma. I casi di legionellosi che si sono verificati in viaggiatori stranieri che hanno trascorso un periodo in Italia, sono segnalati all'Istituto Superiore di Sanità, riportando informazioni sulle strutture recettive in cui hanno soggiornato i pazienti e che potrebbero rappresentare le fonti dell'infezione.

Osservando i dati europei, ma anche nazionali, si vedono grandi differenze dovute alla differente qualità dei sistemi di sorveglianza e alla diversa attenzione da parte della Sanità locale; quindi, il fatto che, dei 5851 casi segnalati all’ECDC (European Center for Disease Control) nel 2013, l’83% dei casi provenga da 6 Paesi, fra cui l’Italia, e che dei 1347 casi segnalati all’ISS il 75% sia stato notificato da 6 regioni, non sta a significare un maggiore rischio in queste aree, ma solo una sottostima nelle altre (Rota 2014; ECDC 2015). L’incidenza nel 2013 è stata di 11 nuovi casi/milione di abitanti in Europa e di 19/milione di abitanti in Italia; risalendo, quando disponibile, alla fonte di esposizione, si osserva (in Italia e in Europa) che il 75-80% dei casi è di origine comunitaria e il 5-8% è di origine nosocomiale; il 5-10% ha pernottato almeno una notte in luoghi diversi dall’abitazione abituale (alberghi, campeggi, navi, abitazioni private) e l’1% aveva altri fattori di rischio (piscine, cure odontoiatriche); nell’arco di 10 anni in Italia sono stati circa 125 i casi nella cui anamnesi è “presente” – nelle due settimane precedenti all’episodio di legionellosi – un trattamento odontoiatrico, senza tuttavia che si sia evidenziata in modo scientifico una relazione causale e senza che l’associazione, in presenza di altri fattori di rischio, sia statisticamente significativa; infatti, una esposizione, non documentata da esami microbiologici sul paziente e sull’ambiente, di per sé non costituisce una relazione causale.
Ad oggi, in ambito odontoiatrico, a fronte di milioni di prestazioni odontoiatriche effettuate nei Paesi industrializzati, non sono mai stati documentati cluster o episodi epidemici che rappresenterebbero la prova della pericolosità delle cure odontoiatriche. Al momento è stato segnalato in Italia un solo caso di malattia sicuramente correlato all’esposizione odontoiatrica (Ricci, 2012) in una paziente, e la letteratura scientifica riporta un caso del 1995 negli USA in un dentista, con evidenze circostanziali (Atlas, 1995; Pankhurst, 2007).

Non mancano studi osservazionali: i dati di prevalenza degli anticorpi anti-legionella riferiti dalla letteratura sono però contrastanti e non sempre a sostegno di una maggiore esposizione rispetto alla popolazione generale o a operatori non sistematicamente esposti ad aerosol. Da alcuni studi emerge una chiara associazione fra la professione odontoiatrica e la presenza di anticorpi anti-legionella (Fotos, 1985; Reinthaler, 1988); altri autori, invece, non ritengono i dentisti una categoria di operatori particolarmente esposta, in quanto il confronto con donatori o con altre categorie non esposte non ha evidenziato differenze statisticamente significative (Oppenheim, 1987; Pankhurst, 2003). Anche l’American Dental Association (ADA) si è schierata con questi ultimi, pubblicando i risultati ottenuti dallo screening effettuato su 1294 dentisti (ADAF Monitors the Health of the Dental Profession); i test sono stati effettuati nell’ambito del Health Screening Program 2004 (HSP) al fine di valutare il rischio occupazionale da legionella per i dentisti. Dallo studio è emerso che il 7,4% dei dentisti possedeva anticorpi anti-legionella pneumophila, e questo dato non si discosta dai risultati ottenuti nel 2003 sia sui dentisti (8,6%) sia su un gruppo di controllo. Analoghe conclusioni sono riportate in un documento pubblicato dall’ADA nel 2014. I dati italiani presentano differenze di prevalenza fra i centri di assistenza coinvolti nell’indagine (Borella, 2008).
Da un punto di vista teorico, lo studio odontoiatrico rappresenta un contesto sanitario nel quale potrebbe concretizzarsi un rischio da legionella per operatori e pazienti:

  • la presenza dell’impianto idrico in cui il flusso avviene attraverso tubature di materiale plastico, la velocità del flusso, le possibili soste dell’impianto e la possibilità di stagnazione dell’acqua a temperatura ambiente favoriscono la formazione di biofilm;
  • la necessaria produzione di aerosol dal manipolo dell’unità dentale può costituire l’occasione con cui la forma planctonica o la forma sessile del batterio sono liberati, sotto forma di aerosol, nell’ambiente lavorativo.

Si ritiene quindi che la legionellosi possa rientrare fra i rischi lavorativi e assistenziali dello studio odontoiatrico. Ovviamente il rischio sarà maggiore per soggetti più predisposti all’infezione: anziani, deboli, immunodepressi, fumatori, affetti da patologie respiratorie.
Alle considerazioni precedenti circa gli eventi clinici osservati (e correlati) bisogna aggiungere che il livello di contaminazione è molto diverso nelle osservazioni effettuate sui riuniti, sia per la struttura dei riuniti stessi, sia per l’intensità dell’attività svolta da ciascuno, sia per le pratiche di bonifica messe in atto (Castiglia, 2008; Pasquarella, 2012; Leoni, 2015; Schel, 2006; Arvand, 2013).

Un ulteriore elemento che rende critica una valutazione del rischio per operatori e pazienti è che non esiste accordo in letteratura scientifica né tra le diverse linee guida pubblicate a livello internazionale, sull’opportunità o meno di eseguire campionamenti ambientali periodici del sistema di distribuzione dell’acqua nelle strutture sanitarie. Anche tra coloro che sostengono la necessità di effettuare un monitoraggio periodico dell’acqua, non vi è accordo circa la frequenza di campionamento e sulle soglie da considerare a rischio (soglie oltre le quali diventa necessario attivare sistemi di bonifica).
Un conto è la presenza sporadica di legionella e il pericolo teorico che si riproduca, e un altro la colonizzazione vera e propria, correlata al rischio di contrarre la malattia. Le probabilità d’infezione s’impennano a livelli di oltre 10 mila unità formanti colonie per litro d’acqua, mentre, anche secondo le ultime indicazioni nazionali, i livelli di contaminazione > 103 costituiscono, in assenza di casi clinici, un segnale di attenzione e una situazione da tenere sotto monitoraggio, valutando o rivalutando le pratiche di controllo del rischio abitualmente attuate e identificando eventuali misure correttive.
Le differenze esistenti tra le unità dentali in commercio fanno sì che le scelte di bonifica, di disinfezione, di trattamento disinfettante in continuo o in discontinuo, di alimentazione indipendente dall’impianto idrico dell’edificio, di installazione di valvole a monte dell’impianto (tutte possibilità di prevenzione e controllo della contaminazione) siano vincolate alle caratteristiche tecniche dell’unità dentale stessa e, quindi, alle indicazioni del costruttore. Il seguire le indicazioni del produttore per gestire l’impianto in sicurezza ricorre nelle indicazioni internazionali ed è una condizione per garantire l’odontoiatra circa procedure che non danneggino l’unità dentale.

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È altresì vero che spesso i trattamenti di disinfezione suggeriti mancano di evidenze di efficacia e le valutazioni sono effettuate per un certo disinfettante su una certa unità dentale, ma non sempre sono prodotto di sperimentazioni generalizzabili; per le norme internazionali il disinfettante è sottoposto a test in vitro, in condizioni operative e di concentrazione non sempre riproducibili sul campo; ci sono attualmente testimonianze scientifiche di efficacia di trattamenti su unità dentali, ma le documentazioni disponibili non sempre soddisfano bisogni di informazione circa concentrazione efficace del principio attivo e tempi di contatto per qualsiasi unità dentale (Schel, 2006; Walker, 2007; Meiller, 2004).
Le evidenze di efficacia di interventi per ridurre l’esposizione dell’operatore e del paziente ad aerosol potenzialmente contaminati generati dall’unità dentale, riportate dalle Linee guida CDC del 2003, riguardano esclusivamente l’azione di “flussaggio” dopo il trattamento di ogni paziente (livello di raccomandazione II) e disinfezione, manutenzione, monitoraggio della qualità dell’acqua effettuati secondo le indicazioni del produttore dell’unità dentale (livello di raccomandazione IB e II).
Sono inoltre riportate in alcune pubblicazioni (HTM 01-05, 2013; HPSC, 2009; WHO, 2007) come indicazioni di buona pratica, anche se al momento non supportate da studi specifici di efficacia:

  • alimentazione del riunito con soluzioni sterili o acqua distillata;
  • disinfezione continua e discontinua dei condotti idrici del riunito;
  • installazione di filtri a monte dei manipolo e loro manutenzione;
  • flussaggio degli strumenti rimasti inattivi;
  • anamnesi sui pazienti per identificare le situazioni individuali di maggiore rischio.

La valutazione del rischio biologico da legionella per il professionista e per il paziente dovrà essere condotta in relazione alle caratteristiche dell’unità dentale, ai suoi tempi di utilizzo, all’entità della contaminazione a monte dell’impianto di alimentazione e delle possibilità di azione preventiva e di controllo efficaci che possono essere implementate.
La considerazione del rischio biologico di origine ambientale, a prescindere dallo specifico rischio per legionella che ne costituisce solo una modesta componente, deve comunque guidare le riflessioni degli operatori nelle scelte effettuate per lavorare in sicurezza, per lo staff dello studio e per i pazienti assistiti.

La bibliografia è disponibile presso la Redazione.
L'articolo è stato pubblicato su Dental Tribune Italian Edition, ottobre 2015

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