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L’importanza della vita sindacale per lo sviluppo della professione odontoiatrica

Giulio Del Mastro.
Patrizia Biancucci

Patrizia Biancucci

ven. 20 novembre 2020

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Intervista a Giulio Del Mastro, odontoiatria libero professionista, Presidente provinciale AIO Torino e socio attivo di SIE.

Oggi per un laureato in Odontoiatria è tutto scontato: esame di stato, iscrizione all’Albo, cassa previdenziale Enpam, essere equiparato a un medico con specializzazione odontoiatrica, e altro. Perfino quel vecchio ironico nomignolo “odontopuffo” è sconosciuto agli attuali neolaureati, ma non è così per un veterano come Giulio Del Mastro, che di battaglie ne ha combattute tante come rappresentante sindacale AIO, fin dalla sua fondazione nel lontano 1984, ricoprendone tutti i ruoli fino alla presidenza nazionale nel 2002. Torinese, odontoiatra libero professionista, socio attivo di SIE e co-autore del “Manuale di endodonzia”, attualmente presidente provinciale AIO Torino e membro dei Probiviri, Del Mastro ripercorre con noi l’evoluzione di una professione ancora appassionante ma sempre più schiacciata dal peso burocratico, sociale ed economico che la porta fuori da quell’età dell’oro sfumata verso la fine degli anni ’80.

Dott. Del Mastro, lei è stato uno dei primi laureati in Odontoiatria: conosceva già le associazioni di categoria? A quando risale il suo impegno in ambito sindacale nell’AIO?
Sono nell'AIO dalla prima ora, appena qualche anno dopo la fondazione, nel 1984. La mia laurea è ormai datata e nel 1985 i problemi per un neolaureato non mancavano, dall’assenza dell’esame di Stato all’impossibilità di ingresso nell’Enpam, allora riservato ai medici. Periodi pionieristici per una laurea che immetteva nella professione gli “odontopuffi”, anni in cui il prof. Valletta, napoletano verace, alla domanda di un collega scandalizzato che chiedeva come questi nuovi pseudo medici si sarebbero comportati in caso di emorragia, rispondeva candidamente “chiameranno l’idraulico…”. Ho iniziato come consigliere AIO Torino, sostituendo poi alla presidenza l’amico Paolo Rosato, nel frattempo diventato presidente nazionale. Un periodo caotico, molto intenso, che ancora oggi ricordiamo assieme con nostalgia e la pelle d’oca. Di quegli anni mi resta, tra gli altri, il ricordo di uno splendido congresso a Torino, ospiti anche i professori Bracco e Guastamacchia, tra i primi a credere nelle potenzialità della nuova figura professionale. Da allora ho ricoperto svariati ruoli, da direttore della rivista fino a diventare presidente nazionale all’inizio del terzo millennio.

Cosa trova che sia cambiato negli ultimi 15-20 anni dal punto di vista dei colleghi e dal punto di vista di chi fa sindacato?
L’età d’oro dell’odontoiatria, come quella di tutte le professioni liberali, è terminata più o meno alla fine degli anni ‘80. Da allora, normative e adempimenti sempre più oppressivi e una tassazione progressivamente più pesante e iniqua hanno contribuito a far perdere gran parte dell’appeal garantito fin dai tempi del boom economico. L’aumento indiscriminato degli operatori e la contemporanea riduzione del potere d’acquisto dei pazienti ha fatto sì che un meccanismo virtuoso si avvitasse su se stesso, collassando. Gran parte di questo risultato dipende da azioni sciagurate della politica che si sono susseguite nel tempo, legate anche allo scarso potere lobbistico che la categoria e il terziario ad essa collegato hanno saputo mettere in campo. Dalla demagogia delle protesi sociali ai LEA, tuttora disattesi, ci si è sempre dovuti confrontare con infiniti ostacoli. Si prenda ad esempio la recente presa in giro relativa al contributo statale per le spese di sanificazione, ridotto nel giro di pochi click di mouse dal 60% a meno del 10, passando attraverso la mancata concessione dei contributi COVID-19, negati ai professionisti ma non agli imprenditori (categoria nella quale rientriamo solo per l’IRAP). Devo confessare che per chi si occupa di sindacato questi episodi sono moralmente devastanti perché amplificano il senso d’impotenza che si prova di fronte alla modalità di sola mungitura.

Lotta all’abusivismo: non crede sia diventata una “battaglia di retroguardia” a scapito di nuovi e pressanti problemi, come ad esempio quelli legati ai giovani odontoiatri sempre più collaboratori/consulenti e non titolari di studio?
La nostra collaborazione con istituzioni e forze dell’ordine, in particolare il NAS dei Carabinieri e la Polizia municipale, è collaudata ormai da decenni con risultati confortanti ma sicuramente insufficienti. Inoltre, la figura dell’abusivo classico che lavora solo o con compiacenti prestanome è stata superata da altri modi di aggirare la legge. Molto meno rischioso, infatti, creare una società di comodo e sfruttare nella struttura operativa neolaureati disponibili in abbondanza (ricordo che la programmazione degli iscritti al corso di laurea è fatta sulla ricettività del singolo ateneo e non su una reale previsione legata a esigenze fisiologiche di turnover. A questi vanno aggiunti i numeri dei laureati all’estero). In queste strutture la figura dell’abusivo risulta molto più evanescente e difficile da identificare e colpire. D’altro canto questo si lega a un trend che vede in aumento il numero di giovani poco disponibili a condurre in proprio un’attività professionale complessa ed organizzata come quella odontoiatrica. Ho aperto il mio primo studio a 26 anni, con molta incoscienza ma con la concreta convinzione che sarei riuscito a gestirlo. Quest’ambizione sta scemando in maniera proporzionale alla crescita della complessità di amministrazione, molto più impegnativa dell’aggiornamento professionale necessario a una corretta pratica clinica.

Dott. Del Mastro, come vede la progressiva crescita dell’Odontoiatria organizzata (catene, franchising, etc.): risponde ai bisogni di chi non ha accesso alle cure dentistiche o è solo speculazione economica e mercificazione della professione?
Il dentista sconta nella professione l’evidenza di un pagamento integrale della tariffa da parte del paziente, salvo l’intervento di alcune forme assicurative che comunque costano. Interventi mutuati dal SSN, anche molto impegnativi, sono percepiti dal paziente in maniera diversa perché coperti dal pagamento di un ticket che non rispecchia il costo effettivo delle prestazioni. Da sempre siamo abituati a veder considerato caro un impegno professionale che è semplicemente costoso ed è comprensibile che le fasce di utenza con ridotta capacità di spesa cerchino alternative più economiche per la soluzione dei loro problemi di salute. Le strutture ospedaliere complesse e di eccellenza sono di solito riservate a pazienti con evidenti complicazioni cliniche di natura generale, mentre gli ambulatori delle ASL erogano sul territorio prestazioni comunque limitate. Abusivismo, turismo dentale all’estero, esperienze low cost (di nome, ma spesso non di fatto) sono state le offerte rivolte negli anni a una categoria di cittadini dimenticata dallo Stato. È esperienza comune però che se il pagamento di una tariffa congrua non è in automatico indice di un trattamento adeguato, un esborso di denaro troppo basso rende l’esito della prestazione estremamente imprevedibile. È una generalizzazione forzata ma realistica di fenomeni che negli anni passati hanno creato danni clinici ed economici alle persone, spesso alle prese con problemi iatrogeni a posteriori di complessa soluzione e comunque ancora più costosi.

Ritiene che l’Enpam, di cui lei è un profondo conoscitore, abbia messo in atto nuove modalità di previdenza e di assistenza in linea con i cambiamenti in atto, con particolare riferimento a questa critica fase pandemica?
La Fondazione Enpam è una cassa di previdenza solida. Da alcuni anni ha cambiato pelle introducendo alcune modifiche sostanziali, legate in gran parte alla legge Fornero che ha imposto agli enti di previdenza di garantire una solvibilità nell’erogazione delle pensioni addirittura a 50 anni. È chiaro a chiunque come sia estremamente improbabile fare previsioni attendibili su un tale arco di tempo, ma su questi presupposti si è dovuta realizzare una riforma del Regolamento particolarmente robusta. L’età pensionabile schizza a 68 anni e l’aliquota contributiva raggiunge il 19,50%: si paga di più, per più tempo, ottenendo in cambio una pensione più leggera. Un vero affare! Esistono peraltro note positive e arrivano dalle risorse disponibili dall’anno scorso per il trattamento dell’inabilità assoluta temporanea, transitata dal capitolo ‘assistenza’ a quello ‘previdenza’. Questo dettaglio formale ha sbloccato denaro degli iscritti che potrà essere utilizzato per mutui prima casa o studio, finanziamenti per la formazione, sussidi di maternità, polizze Long Term Care (LTC). Inoltre, l’indennità relativa all’IAT potrà essere erogata a partire dal 31° giorno e non dal 60°, oltre ad essere proporzionale al reddito (prima la disponibilità era più bassa e solo per redditi inferiori a circa 40.000 €). Durante la pandemia il nostro ente è stato subito reattivo, stanziando con grande sforzo economico sussidi di mille euro al mese per la platea di aventi diritto. Peccato che tali contributi siano arrivati già gravati da una ritenuta del 20%. È una situazione che non ha eguali in tutta Europa e penalizza fortemente le finalità della Fondazione e l’entità delle prestazioni erogate.      

Dott. Del Mastro, per un padre di tre figli come lei, quanto è difficile conciliare lavoro-attività sindacale-famiglia?
Fare sindacato significa investire il proprio tempo in un’attività appassionante, anche se a volte si possono perdere ore per ottenere nulla, garantendo gratificazioni simili a quelle professionali. Lo considero una parte importante della mia vita e sono stato molto fortunato ad aver incontrato nel percorso colleghi più esperti che mi hanno formato e altri che mi hanno supportato nei vari gruppi di lavoro. Persone che portano avanti un’attività parallela a quella di studio, misconosciuta e non retribuita. Gli insuccessi, tanti, e qualche piccolo risultato diventano poi patrimonio dei soci. Lavoro in uno studio mono professionale, ho un ottimo personale ausiliario, sono l’unico operatore e mi avvalgo di pochissime e selezionate collaborazioni part time. Tutta l’attività sindacale ruba spazio a quella sul paziente, alle pause, al tempo libero serale e dei week end. Con tre ragazzi adolescenti la vita è sicuramente complicata ma penso di essere stato sufficientemente presente da avere contribuito con Laura a costruire una bella famiglia, affiatata e litigiosa al punto giusto.

Col tempo ho raggiunto la consapevolezza che l’attività sindacale è un hobby. Alcuni collezionano fumetti, altri vanno in bici, io mi occupo di questo. Mi piacerebbe trovare lo stesso interesse nei giovani anche se li vedo molto rassegnati a subire più che a governare la metamorfosi della professione. Hanno sicuramente problemi diversi ma dovrebbero valutare con attenzione che questi sono comuni ad altri e difficilmente possono essere risolti da iniziative singole. È questa la forza del sindacato: l’aggregazione.

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