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Per un buon rapporto terapeutico occorre il principio di reciprocità

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Mario Turani

Mario Turani

gio. 15 marzo 2018

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Riporto un caso ancora “sub judice” che ha avuto avvio nel 2006. Un collega di Brescia inizia una riabilitazione protesica in una paziente di allora 45 anni. Già in cura da circa 15 anni presso altri odontoiatri per problemi di carattere parodontale, si presenta in stato di profondo scadimento clinico orale. Mancanza di elementi dentari (denti residui nel numero di 7 all’arcata superiore e di 6 a quella inferiore), tasche fino a 10-12 mm, mobilità di grado avanzato, sanguinamento, esteso riassorbimento osseo di tipo orizzontale superiore e inferiore.

In considerazione di tale situazione clinica, il piano curativo rende impossibile una riabilitazione protesica fissa con gli elementi dentari presenti nonché il posizionamento di un numero sufficiente di elementi implantari. In accordo con la paziente, il curante opta per una soluzione protesica rimovibile tipo over-denture su cappette metalliche ancorate su monconi naturali dei denti residui.

Scelta condivisibile in funzione dell’opportunità di ridurre e uniformemente distribuire il carico occlusale sui denti (o ciò che ne rimane), auspicando una prognosi meno infausta, e procrastinando la possibilità/necessità di inserimento implantare, senza comunque dover sostituire le protesi realizzate ma semplicemente adattandole.

Il lavoro protesico viene ultimato nell’ottobre 2007. Seguono regolari controlli con i necessari e routinari interventi di manutenzione, quali ribasature, ritocchi e igiene orale. Dalla cartella clinica del curante (da me assistito) risulta che la paziente gestisce la tempistica dei controlli richiesti in maniera molto “personale”, con intervalli abnormi rispetto a quanto concordato, obbligando il curante ad imprevisti e ripetuti interventi di “ripristino” ben oltre il concetto di assistenza. Sempre dalla cartella clinica risulta che nel mese di maggio 2012 la paziente sospende in maniera unilaterale ed arbitraria tali controlli.

Attraverso il proprio personale e con comunicazione telefonica e postale, il curante tenta di contattare la paziente, con un nulla di fatto. Nel gennaio del 2016 (dopo circa 4 anni di silenzio) giunge sul suo cellulare personale un sms della paziente con richiesta d’incontro per chiarimenti riguardo al lavoro protesico eseguito anni addietro. Incontro che avviene dopo pochi giorni senza portare a conclusioni, nel senso che sostanzialmente al curante non viene formulata alcuna richiesta concreta e costruttiva.

Nel contesto dell’incontro provvede comunque a eseguire fotografie e OPT, documentando lo stato attuale della paziente. Senza giustificazione alcuna, dopo alcuni giorni nuovo sms con richiesta di preparare la documentazione clinica della paziente per il ritiro, cosa che avviene nei giorni successivi. Dall’ultimo incontro con la paziente (gennaio 2016) e per tutto l’anno non risultano contatti o comunicazioni da parte della paziente. Solo nel febbraio 2017 (dopo 1 anno) al curante perviene raccomandata del suo legale con richiesta di ogni possibile danno, restituzione dell’onorario ricevuto (circa 15.000  €) e corrispettivo di spese future che la paziente dovrà sostenere.

Considerazioni
Non si vogliono qui porre considerazioni di carattere medico-legale, perché più interessante sembrano quelle di carattere più generale, etico e comportamentale. Parliamo di concetto di reciprocità definibile come “rapporto dinamico di parità che collega nella stessa forma o misura i rapporti esistenti fra due soggetti”. Al di là delle differenti “mansioni”, competenze e responsabilità, tradotto nel rapporto odontoiatrico, quel concetto definisce fra curante e paziente, un equilibrato e speculare parallelismo comportamentale, basato sulla reciproca correttezza, lealtà e fiducia, essendo dinanzi alla Legge tutti uguali, con stessi diritti e doveri (o almeno così dovremmo).

Di qui pertanto alcune sintetiche considerazioni.
Il curante non ha mai ricevuto, durante tutto l’iter terapeutico, alcuna lamentela concreta da parte della paziente. Usiamo il termine concreto per definire una critica diversa dalle comuni e costanti doglianza dei pazienti in cura, specie quando protesizzati e con protesi mobili rimovibili. La paziente interrompe spontaneamente e unilateralmente i controlli. Per quasi quattro anni dal maggio 2012 a gennaio 2016 nessun controllo è possibile effettuare sulla paziente né alcuna comunicazione perviene dalla medesima.

Si presenta solo nel gennaio 2016 con una situazione orale, oltre che disastrosa, modificata rispetto all’ultimo appuntamento e con interventi operati da altro/i professionisti. In caso di contestazioni cliniche, il curante deve tuttavia essere informato innanzitutto delle problematiche mosse dalla paziente e quindi, posto in condizioni di verificare quanto contestato e soprattutto messo nella condizione di rimediare all’eventuale danno imputatogli. Rilevare d’emblée una variazione sostanziale di quanto eseguito, operata da altri, può sollevare il professionista da ogni responsabilità, di tipo contrattuale ed extra.

Lascia perplessi la comunicazione via sms, in spregio alle regole di prassi, forma ed educazione più elementari. Eccetto la raccomandata del legale, al febbraio 2017 nessuna comunicazione è giunta al curante dal paziente.

Risulta pertanto doveroso domandarsi:

  • Quali critiche all’operato del curante possono essere mosse?
  • Si possono individuare e quali, degli elementi a favore della paziente?
  • Un eventuale consulente di parte quali appunti critici potrebbe muovere al curante?
  • Quale “senso” di verità e attendibilità la citazione del legale potrebbe contenere e quale possibilità di serena valutazione il giudice potrà trarne?
  • A quanto l’asticella della tolleranza professionale potrà essere ulteriormente elevata?

Ai lettori l’”ardua sentenza”.

 

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