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Neuralterapia cranio-facciale nella cura del dolore cronico del rachide

E. Giugiaro, A. Squarcio

E. Giugiaro, A. Squarcio

mer. 10 febbraio 2016

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Quando, a metà del secolo scorso, i fratelli Huneke, medici tedeschi, descrissero (non per primi in realtà) l’effetto terapeutico delle basse concentrazioni di anestetici locali, il mondo medico accolse con curiosità quella pratica empirica che prese il nome di “neuralterapia”. Nel giro di pochi anni purtroppo, nonostante i successi clinici, prevalse il paradigma “quel che non sappiamo spiegare non può funzionare” e la neuralterapia fu relegata a disciplina alternativa, praticata spesso in modo riduttivo.

In realtà, negli ultimi tre decenni la ricerca nell’ambito delle neuroscienze ha rivelato la profonda connessione funzionale tra sistemi di regolazione (PNEI), da cui emerge con chiarezza che la struttura interna dei processi fisiopatologici alla base dello stato di salute e di malattia è prevalentemente costituita da attività biologiche miste, di natura neuro-immunologica, e queste, per la loro intrinseca complessità, possono talora portare a guarigione, altre volte perpetuare e amplificare gli effetti di uno stimolo nocivo fino alla cronicizzazione1,2.
Si è osservato anche come stimoli di natura assai diversa siano in grado di sostenere quadri nosologici anche di grave entità22,23. Il primo gradino che spinge in questa direzione è dato dall’infiammazione neurogenica, fenomeno che può insorgere già a carico del neurone afferente primario in conseguenza di stimoli di bassa entità, cronici o ricorrenti, anche di diversa eziologia.
Sia le fibre nervose mieliniche sia quelle amieliniche reagiscono con una risposta a cascata3-14, glutammato prima, e poi a seguire prostaglandine, interleukine proinfiammatorie, NO e numerose altre molecole che rendono indistinguibile la risposta neurogena da quella immunitaria4-7. Il segmento nervoso coinvolto tende ad andare incontro a una condizione di ipereccitabilità patologica, che ritroviamo tra l’altro nei fenomeni di iperalgesia, allodinia, wind-up ecc.
Questo stato di sofferenza neuroimmunologica già nelle diverse stazioni afferenti che riguardano il segmento somatico colpito (gangli delle radici dorsali, gangli paravertebrali lamina II e V di Rexed Sostanza Gelatinosa del Rolando) trova in ciascuna di esse risposte che ne possono amplificare l’intensità8-11, anche per la partecipazione di altri fattori di sofferenza tissutale, quali la bradikinina e le neurokine6,12,13.
Questo quadro a livello midollare tende ad amplificarsi e ad accrescere la propria complessità per convergenza di segnali dai diversi distretti corporei, complici le attività dei neuroni di proiezione (Wide Dinamic Range, dinorfinergici ecc.) e quelle neuroimmunologiche delle cellule gliali15-19. Il fenomeno di amplificazione e implementazione sin qui descritto verosimilmente sostiene stati di sofferenza all’origine di sindromi dolorose, quali nevralgie e neuropatie20, e sindromi algodistrofiche croniche, note come CRPS24,25.
Tuttavia, proprio la partecipazione dei neuroni di proiezione mostra la propensione a estendere, sia in senso ascendente che discendente, la neurosofferenza. Di conseguenza, una lesione in un distretto corporeo, attraverso il coinvolgimento delle vie spinotalamiche, della formazione reticolare, del grigio periacqueduttale e di altre stazioni sottocorticali, arriva a esprimere sofferenza in aree somatiche diverse21.
È possibile che da stimoli periferici derivino quadri nevralgici come trigeminalgie, emicranie, cefalee.
Allo stesso modo, stimoli derivanti dal distretto cranio-facciale possono sostenere dolori rachidei e somatici. Numerosi sono gli studi che approfondiscono l’azione delle lesioni “focali” nell’insorgenza di disturbi neuroinfiammatori e neuropatici cronici21-23.
Le aree in cui questo fenomeno ha origine, i “campi di disturbo” della medicina non convenzionale, possono essere rappresentate da cicatrici ed esiti di traumi (ferite, interventi chirurgici, fratture), sedi d’infiammazione cronica, ricorrente o talvolta pregressa (denti, seni paranasali, orecchio, apparati gastroenterico, e genito-urinario), esiti di interventi riabilitativi apparentemente riusciti (osteosintesi, protesi ortopediche, impianti e terapie canalari dentarie), distretti somatici sottoposti a stress o disfunzioni posturali (articolazioni, tendini, muscoli).
Quanto osservato clinicamente dai fratelli Huneke è dovuto alla proprietà neuromodulatoria degli anestetici locali.
Questi farmaci, soprattutto se usati a bassa concentrazione esprimono una capacità regolatoria di numerosi aspetti della neurosofferenza descritti. Gli anestetici locali sono infatti in grado di inibire: l’attività dei recettori del glutammato26,27, l’attività dei canali rapidi del Na e Ca28-37, i recettori delle prostaglandine29, l’aggregazione e l’adesione leucocitaria30, chemiotassi, attivazione e fagocitosi dei neutrofili31,32, i recettori della bradichinina33, quantità e attività dei radicali liberi34, produzione ione superossido35,36 ecc.
Così come il segnale patologico all’origine della neurosofferenza, anche l’azione regolatoria della neuralterapia tende a trasmettersi alle diverse stazioni del sistema nervoso coinvolte nella genesi e nel mantenimento del dolore cronico38,39. Infine quest’effetto ha un’espressione diacronica, che supera l’azione anestetica e può perdurare per periodi assai lunghi e talvolta indefinitamente.
Diverse pubblicazioni in merito all’efficacia clinica neuromodulatoria degli anestetici locali, sono già state presentate in casi di dolore erpetico40, postchirurgico41,42, cervicale43, lombare44,49, trigeminale45, pelvico46 e in casi di CRPS47,48,50; tuttavia si è trattato spesso di popolazioni molto ristrette di pazienti, con patologie omogenee, nelle quali il trattamento è stato eseguito secondo protocolli standardizzati rigidi, con applicazione dell’anestetico locale esclusivamente nel distretto interessato dal dolore. Nel presente lavoro si è ricorso alla terapia neurale come terapia causale, vale a dire con lo scopo di modulare il fenomeno dell’infiammazione neurogenica dove esso si genera, fatto che spesso non coincide con la sede clinica del dolore.

Studio osservazionale: materiali e metodi
Sono stati trattati 32 pazienti affetti dolore cronico del rachide (19 femmine, 14 maschi, di età compresa tra i 27 e i 62 anni, con dolore presente da almeno 12 mesi). Tutti i pazienti avevano precedentemente seguito svariate terapie (corticosteroidi e miorilassanti, antiinfiammatori, analgesici, FKT, manipolazioni, osteopatia, ecc.) risultate inefficaci per il controllo del dolore. I soggetti presentavano (Tab. 1) in 19 casi dolore lombare, in 4 casi cervicale, in 2 dorsale e in 7 dolore in diffuso al rachide (Tab. 2).
Tutti i pazienti sono stati trattati con un numero di sedute di neuralterapia (neuroimmunomodulazione con anestetici locali), variabile tra le 6 e le 14 sedute, utilizzando ogni volta tra 5 e 10 ml di lidocaina allo 0,7% per applicazione segmentaria, plessica o gangliare (ganglio sfenopalatino, otico, cervicale superiore). La scelta delle sedi da trattare tramite neuralterapia è stata squisitamente individuale per ciascun paziente, dettata dalla ricostruzione anamnestica dettagliata degli eventi patologici precedenti alla comparsa del dolore rachideo, in particolare dalla accurata anamnesi delle pregresse patologie cranio-facciali.
La scelta della priorità di intervento è stata spesso facilitata dalla risposta ottenuta con test posturali attivi e passivi, test kinesiologici e osteopatici. Le aree focali che hanno richiesto il trattamento sono risultate: lesioni periodontali e cicatrici endorali, con o senza disordine occlusale, flogosi croniche del massiccio facciale (sinusiti, otiti), cicatrici del capo e del collo (Tab. 3). Il numero delle sedute è variato soggettivamente in funzione della risposta clinica ottenuta; in alcuni casi, infatti, l’azione della neuralterapia è talmente rapida da risultare efficace anche con brevi cicli terapeutici.

Discussione
Relativamente ai 32 pazienti trattati, la neuralterapia su lesioni focali cranio-facciali (Tab. 4) ha permesso di risolvere efficacemente il dolore rachideo in 20 casi; in 4 casi è stato necessario intervenire anche sul disturbo occlusale per stabilizzare la risposta. In 6 casi è stato necessario trattare anche concomitanti focalità somatiche (Fig. 1) e in 3 casi non si è ottenuto un risultato stabile.
Inoltre, si è valutata la riduzione del consumo di farmaci analgesici nei due gruppi. L’intensità del dolore è passata da 9 iniziale a 2 finale nel gruppo 2 (dolore post traumatico, post chirurgico e post herpetico), mentre è sceso da 8 a 2 nel gruppo 3 (cefalea secondaria a infiammazioni sinusali).
Il valore VAS (Tab. 5) riferito al dolore è variato da 7 a 2 per il dolore diurno, e da 7,5 a 2 per il dolore notturno. L’inabilità motoria è passata da 8 a 3, e la capacità di svolgere le proprie mansioni è salita da 2 a 7.
L’assunzione di farmaci analgesici si è ridotta sensibilmente. Tutti i pazienti hanno abbandonato l’assunzione continuativa e solo 6 pazienti hanno proseguito un’assunzione saltuaria di analgesici minori.

Conclusioni
L’osservazione dei casi presentati conforta molto i dati che indicano in questa procedura uno strumento valido ed efficace nel trattare il dolore cronico nei suoi aspetti clinici.
La sua azione si esplicherebbe sui meccanismi di cronicizzazione, amplificazione e diffusione spaziale dell’infiammazione neurogenica, inducendo la riattivazione dei meccanismi riparativi in grado di produrre e mantenere lo stato di guarigione. L’elevata efficacia sarebbe conseguente proprio all’attenta scelta individuale delle aree da trattare, caso per caso. Studi più estesi potrebbero consolidare queste valutazioni.

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L'articolo è stato pubblicato su Dental Tribune Italian Edition, febbraio 2016.

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