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Consenso informato: dal “modulo perfetto” a una possibile soluzione

Vista la varietà e la disomogeneità delle situazioni cliniche della medicina specialistica, non è realistico immaginare un unico modello-tipo di formulario.
Mario Aversa

Mario Aversa

mar. 6 aprile 2010

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Vista la varietà e la disomogeneità delle situazioni cliniche della medicina specialistica, non è realistico immaginare un unico modello-tipo di formulario. Può tuttavia essere utile tracciare un “percorso” per non dimenticare aspetti importanti da concordare nella relazione-alleanza tra sanitario e paziente.  

Vista la varietà e la disomogeneità delle situazioni cliniche della medicina specialistica, non è realistico immaginare un unico modello-tipo di formulario.
Può tuttavia essere utile tracciare un “percorso” per non dimenticare aspetti importanti da concordare nella relazione-alleanza tra sanitario e paziente.
Il processo che porta al consenso è caratterizzato da 4 fasi: informazione, comunicazione, verifica della comprensione e acquisizione del consenso. Occorre, quindi, assumere le informazioni necessarie per un determinato percorso terapeutico, essere sempre disponibili a chiarimenti e approfondimenti, definire criteri e modalità necessari per una corretta informazione (contenuto) e un’adeguata comunicazione (forma), indicando, specie nelle strutture complesse, chi deve compiere tali azioni, le modalità per effettuarle e la sequenza delle fasi del processo.
In proposito, un’indagine condotta su 50 modelli di CI relativi a svariate procedure hanno evidenziato numerose lacune. In particolare, una comunicazione monca e unidirezionale, senza possibilità di contraddittorio né di eventuali chiarimenti e approfondimenti; un modulo di consenso in cui si riportano altre indicazioni (per es., preparazione all’intervento); un altro gravemente incompleto, mancando data di nascita, nazionalità, lingua parlata, consenso a sospendere o modificare l’intervento di fronte a situazioni impreviste o imprevedibili. Mancano informazioni sulle conseguenze del non intervento; manca, in calce al modulo, una dichiarazione del paziente sulla piena comprensione dell’informazione acquisita; inoltre, in diversi moduli è possibile rilevare, oltre a errori di battitura, la fretta di giungere alla parte finale del “consenso liberatorio”: la firma non manca mai, ma ricorrono spesso spazi bianchi, compreso quello della data del consenso, dei benefici e dei rischi.
Ecco ora una riflessione personale e una proposta di possibile soluzione per l’annoso problema.

Il recupero della serenità professionale verso la tanto auspicata “alleanza terapeutica”
Gran parte delle preoccupazioni derivano dal fatto che, per acquisire un valido consenso, occorrono un tempo adeguato e una premura per il paziente – tipica della professione – che si è sempre meno disponibili a concedere, essendo legati a comodi stereotipi e a causa di una procedura che fa perder tempo (e quindi denaro). Il consenso informato dovrebbe essere, invece, un scambio di idee che sostiene la relazione fiduciaria medico-paziente: la sua acquisizione dovrebbe esserne alla base. È un processo istruttivo che ha il potenziale di guidare l’alleanza tra i due nella direzione del reciproco beneficio. Quando lo si affronta in modo serio, la relazione diviene una vera associazione con autorità decisionale e condivisione di responsabilità per le conseguenze.

Marketing dello studio
Nella libera professione, in particolare, la procedura d’acquisizione del consenso è un’operazione di marketing e di fidelizzazione del paziente incredibilmente efficace. Se la spiegazione della proposta terapeutica (informazione) deve essere comunque fatta, il farla in tempi e modi giusti, senza fretta e con un’adeguata preparazione organizzativa, dimostra una giusta attenzione al paziente. Tale disponibilità, ai fini della sua decisione di accettare il trattamento, ha spesso molto più valore della perfetta esecuzione tecnica, di cui si renderà conto (ma non sempre è possibile) in un momento successivo.

Migliorare le performance
Come spesso accade, è una questione di atteggiamento mentale, di disponibilità a cercare (e trovare) qualcosa utile e positivo in quel che a un approccio superficiale potrebbe sembrare solo un’inutile e fastidiosa incombenza. Indispensabile, quindi, mettersi in discussione, analizzare le proprie azioni e capacità di individuare i modi per migliorarle, accettare la perfettibilità e coltivare una sana attitudine al continuo apprendimento e all’autoconsapevolezza. Chi non è disponibile a lavorare in questa direzione aumenta il rischio e si assume la responsabilità per il proprio comportamento, qualora deontologicamente e legalmente imperfetto.
Concludendo, nel superare i vecchi schemi su cui si è basata nel passato l’arte sanitaria, si chiede al medico/odontoiatra di fornire al paziente le informazioni necessarie con un linguaggio attento al livello culturale dell’interlocutore, al comprensibile stato emotivo e alla capacità di capire. Il consenso informato – occorre ricordarlo – è un processo che si svolge nel tempo, non in unico sbrigativo incontro. Il professionista deve rinunciare a una posizione e a un ruolo “di prestigio”, spogliarsi delle vesti di “imparziale funzionario del sapere scientifico”, cercar di raggiungere il beneficio del paziente e, allo stesso tempo, rispettarne la libertà, aiutandolo a prendere decisioni e assumersi responsabilità sulla propria salute. Al malato si chiede al contempo, di non essere soggetto passivo, ma attivamente partecipe del processo decisionale. Certo, per entrambi, non sarà semplice trasformare l’attuale, travagliata, relazione in un rapporto basato su condivisione delle responsabilità e collaborazione tra soggetti con pari dignità, compatibilmente con i limiti imposti dalla malattia. Occorreranno molta buona volontà e tempo per “digerire” il nuovo copione, ma è l’unica via valida e soddisfacente da percorrere. Solo a tali condizioni si potrà iniziare un rapporto meno sbilanciato, in cui la dipendenza psicologica del paziente, che ancor oggi giustifica agli occhi di molti l’atteggiamento paternalistico, potrà essere compensata dalla condivisione con la parte più responsabile della psicologia del malato. Di qui, un inderogabile cambiamento da parte di tutti i protagonisti, con il supporto di uno specifico e gradito contributo legislativo.
I tempi cambiano; in fondo la problematica del CI è solo espressione del faticoso adattamento del pianeta sanità (e, in particolare, del fondamentale rapporto sanitario-paziente) agli avvenuti cambiamenti socio-culturali verso una consapevolezza più profonda del “bene-uomo” e del “bene-salute”.

 

Per contatti e ulteriori informazioni:
www.odontolex.it

 

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