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Il consenso informato: tra necessità etiche e finalità “soteriche”

Enrico Ciccarelli

Enrico Ciccarelli

mar. 4 settembre 2018

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La liceità dell’atto medico, rappresenta da sempre un punto critico nel rapporto medico – paziente essendo il primo l’unico professionista in grado di violare, legalmente, la sfera di intangibilità psico-fisica di un terzo. Un rapporto improntato sin dalla nascita della medicina occidentale ad una forma “paternalistica” dove il medico deontologicamente curava il malato e quest’ultimo ne accettava le prescrizioni.

Nel corso degli anni riflessioni filosofiche, etiche e giuridiche in tema di libertà personale e di autodeterminazione hanno comportato un cambiamento: dallo squilibrio a favore dell’esercente la professione sanitaria al “rapporto paritario” in cui il suo operato è giustificato dal consenso “informato” del paziente ossia dalla sua scelta consapevole.

Il concetto riporta al pensiero di filosofi come Platone (Mito di Er) e Sartre (di cui è noto l’aforisma “La cosa essenziale nella vita è scegliere”) oltre alla consapevolezza ed autodeterminazione di cui parla l’art. 85 del codice penale secondo cui «è imputabile chi ha la capacità di intendere e di volere».

Giuridicamente la nozione di “consenso informato” si richiama agli articoli 2, 13 e 32 della Carta Costituzionale, corrispondenti rispettivamente alla salvaguardia dei diritti inviolabili dell’uomo, la libertà e la salute. Non solo la normativa nazionale, ma anche l’adesione e la ratifica di convenzioni internazionali (Oviedo) confermano l’intangibile rispetto della persona umana, in qualsiasi momento e condizione dell’esistenza, nonché della sua integrità psico-fisica. Il consenso informato riassume, quindi, il disposto di due principi costituzionali: l’autodeterminazione e la salute, rappresentando la “stella polare” del comportamento del sanitario nel rapporto col paziente.

Per propria formazione culturale il sanitario non ha mai prestato in verità un grosso interesse per le appendici normative riguardanti la professione. Ancor oggi, seppur la dottrina medico-legale abbia cercato di far comprendere la necessità di attenersi alla corretta interpretazione di alcuni aspetti normativi, i sanitari si sono sempre dimostrati riottosi al richiamo. Una prova evidente? La compilazione frettolosa di alcune cartelle cliniche, ovvero il poco tempo dedicato, es., all’acquisizione del consenso informato.

Ultimamente si è verificata tuttavia un’inversione di tendenza: da un lato, con una presa di coscienza sempre maggiore di dover ottemperare al dettato normativo, dall’altro, con la riforma sulla “Responsabilità professionale” (la cd Legge Gelli Bianco (24/17) e la Legge 219/17 sulle “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”.

Con la prima è stata varata l’ennesima riforma della responsabilità professionale in ambito sanitario, introducendo, all’art 5, una causa di esenzione (cd. “esimente”) qualora il sanitario «si sia attenuto alle raccomandazioni previste dalle Linee guida» del Ministero della salute o delle Società scientifiche maggiormente accreditate. Quindi il primo passo verso quella finalità “soterica “ (ossia liberatoria) richiamata nel titolo consiste proprio nell’acquisizione di un corretto consenso.

Per approfondirne l’utilità vediamo quel che sul consenso informato detta la legge 209/17 all’art 1: «Acquisito nei modi e con gli strumenti più consoni alle condizioni del paziente e documentato in forma scritta o attraverso videoregistrazioni…». Già nel 2008 la Corte Costituzionale (438/2008) spiegava come: «La circostanza che il consenso informato trovi il suo fondamento negli art. 2, 13, e 32 della Costituzione pone in risalto la funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona; quello dell’autodeterminazione e quello della salute».

Sulla falsariga di questi orientamenti si sono succedute alcune sentenze della Cassazione (N° 2422015, N° 24074/2017, N° 7248/2018) confermando che la mancanza della corretta acquisizione comporta la violazione dei due diritti, con due tipi di danno, autonomamente risarcibili. Il primo (danno alla salute) si concretizza quando, es., l’atto medico produce una menomazione, es. la perdita di un elemento dentario, ossia una riduzione dell’integrità psico-fisica del soggetto (cd. danno biologico). Il secondo si concretizza, invece, quando, a causa della mancata/incompleta informazione, il paziente non ha potuto effettuare una scelta consapevole essendo stato violato il suo diritto all’autodeterminazione. In realtà questa fattispecie si concretizza solo se la limitazione del diritto all’autodeterminazione supera i limiti minimi della normale tollerabilità (Cassazione, Sezioni Unite, N° 26972/2008).

Per attenersi all’ art. 5 della Legge 24/17 ed usufruire dell’esimente prevista, il sanitario, una volta formulata la diagnosi, deve informare dettagliatamente il paziente non solo sul trattamento ma anche su complicanze, terapie alternative e possibilità di successo, citando le linee guida cui si fa riferimento. In caso di contenzioso, il medico, dal canto suo, dovrà dimostrare di essersi attenuto alla migliore pratica clinica corrente.

Ne consegue l’abbandono del “consueto” modulo prestampato, magari firmato dal paziente un attimo prima dell’inizio del trattamento (Cass. Sentenza N° 2177/2016). La spiegazione dettagliata dovrà essere comprensibile in modo che l’interlocutore possa, in base alle proprie conoscenze e formazione, valutare quanto proposto dal sanitario e, quindi, scegliere, consapevolmente. Da abbandonare del tutto quindi il comportamento paternalistico di chi si limitava ad una succinta e frettolosa spiegazione mentre andrà valorizzato il disposto «il tempo della comunicazione tra medico e paziente costituisce tempo di cura» (vedi paragrafo 8, art. 1, Legge 209/17).

Pur condividendo l’orientamento giurisprudenziale, si rischia di passare da una situazione in cui il medico era l’unico attore di un rapporto duale a un’altra in cui non è più agente ma riveste un ruolo passivo, spesso indifendibile, perché si potrà sempre dire che l’informazione non è stata comprensibile e fruibile al paziente.

In definitiva l’aspetto medico-legale della prestazione sanitaria, tenuto conto del mutato rapporto medico/paziente, ha assunto un ruolo sempre più importante, la cui conoscenza è divenuta imprescindibile, secondo quanto affermava anni orsono Bruno Maria Altamura, Maestro della Medicina Legale: «È l’unica materia che il futuro medico studia per sé e non per il paziente».

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