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Odontoiatria: “coraggio, il meglio è già passato”

Antlo

Antlo

mer. 22 gennaio 2014

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Il sistema dentale italiano sta vivendo ormai da un quindicennio una crisi strutturale che ha rimesso in discussione lo stesso modello di odontoiatria. Dal 2008 a questa crisi strutturale si sono sommate le conseguenze della crisi economica innescata negli USA dallo scoppio della bolla finanziaria alimentata dal sistema dei mutui subprime ed avviata dal fallimento della Lehman Brothers.

In questi sei anni le principali economie del mondo – e non soltanto i BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa) – hanno se non approfittato della globalizzazione almeno riassorbito i suoi effetti, riassorbendo anche gli effetti della peggior crisi economica dal 1929 ad oggi. Si è così stabilita una nuova gerarchia economica mondiale ed in pochi anni siamo passati dai vertici G7 ai vertici G20.

Il nostro Paese che negli anni Settanta poteva vantare di essere la quinta potenza economica mondiale è scivolato nei piani bassi della classifica, tanto che oggi i benevoli commentatori interni lo riescono a definire solo come la seconda potenza manifatturiera della “zona euro”, tanto per non ferire troppo il già di per sè scarso orgoglio nazionale.

Così mentre gli indicatori economici di tutti i maggiori Paesi stanno virando da tempo in positivo, in Italia prevediamo per il corrente anno una crescita da prefisso telefonico assolutamente insufficiente per riassorbire quote di disoccupazione ed adeguatamente sviluppare la domanda interna di beni e servizi. Stiamo in altri termini cominciando a pagare alcune “cambiali” il cui incasso è stato da tempo immemore rinviato alle generazioni successive, in un contesto dal “sentiment” tutto negativo.

Il Debito Pubblico, con il record di 2.104 mld/euro raggiunto nello scorso novembre, sottrae risorse agli investimenti produttivi e infrastrutturali ma anche ad un sistema di welfare sempre meno in grado di soddisfare bisogni primari anche e soprattutto nel settore della salute.

Le riforme strutturali, sia economiche che sociali, tante volte poste ai primi posti dell’agenda dei lavori della politica non sono state mai realizzate, se non per diminuire il livello di protezione delle classi subalterne, determinando così la perdita di competitività del “sistema Paese” e quindi della stessa economia nazionale.

La classe dirigente, non solo politica, assolutamente non all’altezza dei compiti, sembra privilegiare ogni giorno un inutile e fatuo confronto spesso con battute da “bar sport”.

I modelli culturali imperanti sono improntati a certa “non cultura” televisiva che non poche responsabilità ha nella scomparsa della sobrietà, della competenza e dell’educazione civica.

Una società che in larghi strati non disdegna di dare ascolto ai populismi che di volta in volta assumono nuove forme e nuove sembianze, sino a richiedere perfino l’uscita dall’euro ritenuto il responsabile principale di tutti i mali italiani perpetuando così l’evasione dalle responsabilità.

E’ questo il ritratto oggi di un Paese - ed in particolare della sua classe dirigente che ne è lo specchio fedele – che ha da sempre una certa idiosincrasia verso la soluzione dei problemi, facendo finta che non esistano o rinviandoli alle generazioni future.

Da sempre abbiamo avuto bisogno di vincoli esterni. Ne abbiamo avuto bisogno nel dopoguerra per affermare il sistema democratico. Ne abbiamo avuto bisogno negli anni cinquanta con la liberalizzazione degli scambi contro le miopi spinte protezionistiche di certa imprenditoria. Ne abbiamo avuto bisogno negli anni settanta con lo SME e poi con il Trattato di Maastricht ed infine con l’avvento dell’Euro. Oggi siamo arrivati all’incasso di cambiali firmate decenni fa ed oberate da paurosi interessi in termini di costi effettivi sia economici che sociali.
 

Oggi qualcuno cerca ancora una volta di rinviare l’incasso di queste “cambiali” sollecitando facili consensi, non indicando i mali strutturali da affrontare e guarire, ma indicando nella “medicina” (l’Euro) la “malattia” da cui guarire, proponendo referendum (sull’Euro) che la stessa Costituzione vieta, casomai per tornare a quella sorta di “Paese dei campanelli” dove invece di affrontare le questioni di struttura si ricorreva alla cd “svalutazione competitiva” della lira con buona pace del potere di acquisto di stipendi, pensioni e risparmi.
 

E’ così desolante constatare che proprio quelle fasce sociali che più di ogni altre sono state ieri sacrificate sull’altare della cd “svalutazione competitiva” siano oggi più propense a dare ascolto a certi “pifferai di Hamelin” sognando il ritorno alla “liretta” e ai suoi vizi.
 

Nella attuale crisi strutturale del nostro Paese abbiamo così una grande occasione: per dirla con Vico “paiono traversìe, sono opportunità”. O infatti iniziamo ad affrontare i veri problemi strutturali o scivoleremo sempre più in basso sino a compromettere non solo il nostro sistema di vita ma le stesse fondamenta democratiche del nostro Paese.
 

In tale contesto come si può inserire una riflessione sia pur generale sul modello di odontoiatria e sul sistema dentale italiano? Sono forse necessarie acrobazie pindariche o forse, come riteniamo, le analogie risultano essere davvero sorprendenti se non inquietanti?

E’ bene però fare una importante premessa. In passato le forme di rappresentanza degli odontoiatri hanno contestato, talvolta aspramente, il fatto che altri, soprattutto gli odontotecnici e chi li rappresentava, si interessassero di “odontoiatria”. Noi riteniamo non accettabili tali contestazioni e rivendichiamo la piena cittadinanza e legittimità anche da parte degli odontotecnici di trattare e avanzare proposte in materia di odontoiatria, essendo l’odontoiatria e più in generale il dentale, il contesto di riferimento dell’attività odontotecnica.
 

L’odontoiatria, non in quanto professione che appartiene solo ed esclusivamente agli abilitati per legge al suo esercizio, ma in quanto a settore di attività, non è solo “affare di qualcuno”. Dai destini dell’odontoiatria dipendono i destini degli odontotecnici, delle loro famiglie, della loro attività professionale, delle loro aspirazioni e del loro futuro, per cui negare agli odontotecnici di interessarsi di odontoiatria, non significa solo un rifiuto al confronto, ma anche impedire loro di interessarsi del loro presente e del loro futuro. In tale ottica noi intendiamo occuparci di odontoiatria.

Il modello di odontoiatria affermatosi nel nostro Paese sin dal dopoguerra e consolidatosi nei decenni successivi ha avuto grandi meriti anche sociali sostituendosi con l’offerta privata alla carenza dell’offerta pubblica nella prevenzione e garantendo comunque prestazioni di qualità.

Da quindici anni a questa parte sempre più evidenti sono però i segnali dell’insostenibilità di questo modello di odontoiatria e non è certo dalla pratica del principio del “fermare tutto ciò che può muoversi e non muovere tutto ciò che è fermo” che si possono ricavare insegnamenti utili. In breve, si è ritenuto che cristallizzando l’iniziativa si potessero cristallizzare i problemi, casomai illudendosi di perpetuare nel tempo l’età dell’oro dei decenni precedenti. Così non è stato come era facilmente prevedibile.

I recenti dati ISTAT (poco più di 4 visite ogni 100 abitanti) circa gli accessi alle cure dimostrano quanto siano peggiorati rispetto a quelli di otto anni prima, quando la stessa ISTAT pubblicando nel 2008 i dati di una ricerca del 2005 faceva rilevare che solo il 39,7% della popolazione si recava di norma dal dentista almeno una volta l’anno.

Commentando quei dati “Il Sole/24 ore – Sanità” pubblicò un articolo nel dicembre 2008 dal titolo significativo “Curarsi i denti è un fatto d’élite, un lusso per pochi. Si può ancora parlare di welfare state”. Ci domandiamo quale potrebbe essere il titolo a commento dei recenti dati ISTAT.
 

In questi anni, il sistema dentale italiano ha avuto piena consapevolezza del drammatico progressivo peggiorare della situazione e soprattutto quali iniziative concrete ha avanzato?

In verità qualche tentativo, seppur vano, c’è stato per coordinare l’attività e le iniziative dei soggetti del dentale a favore di un deciso aumento degli accessi alle cure come condizione prioritaria per tentare di superare la crisi strutturale del settore.

Tentativi tanto conclamati nelle conferenze stampa quanto naufragati nel fallimento sin dopo gli annunci stessi e non per responsabilità soltanto della politica. Così è stato nel 2000 con le proposte sulla defiscalizzazione dei costi delle prestazioni che non trovarono indisponibile l’allora Ministero delle Finanze, così è stato nel 2005 dove all’ottimismo della volontà di molti dei soggetti subentrò il pessimismo delle piccole guerre interne al mondo odontoiatrico ma purtroppo anche odontotecnico, dove spesso si è reclamato un protagonismo inversamente proporzionale al contributo dato.

Cosa dire poi dei vari programmi sulla “protesi sociale” (2003, Ministro Sirchia) ma anche sulle “prestazioni a onorari concordati” (2009, Ministro Fazio) che si inserirono a pieno titolo nella politica dei “grandi sogni italiani” di certi Governi?

E’ poi possibile dimenticare quanto sia stato negativo per tutti (odontoiatri, filiera del dentale e pazienti) l’abbandono dei risultati di un congresso della più importante associazione odontoiatrica che voleva trasformare i propri Soci in soggetto collettivo rispetto alle nascenti forme di terzo pagante, governandone così insieme sia i prevedibili trend positivi sugli accessi alle cure, sia le stesse condizioni di partecipazione?

Sono passati circa dodici anni da quel congresso. Le diverse declinazioni di terzo pagante si stanno comunque affermando pur non esprimendo tutte le potenzialità; l’adesione degli studi alle varie forme di convenzionamento sono in crescita anche in ragione della crisi strutturale e certamente a condizioni inferiori a quanto avrebbe potuto ottenere un “soggetto collettivo”.

Abbiamo ragione di ritenere che se si fosse dato seguito alle decisioni assunte in quel congresso la situazione generale dell’odontoiatria italiana sarebbe di gran lunga migliore per tutti i soggetti della filiera a cominciare dai fruitori finali: i pazienti. Ma anche in quel caso sono prevalse le ragioni delle “dinamiche interne” con buona pace dell’intero sistema dentale italiano ma anche del livello di salute orale della cittadinanza.

Oggi ci troviamo di fronte ad una situazione di gran lunga peggiore rispetto a quella del 2000, del 2002 e del 2005 quando alcune opportunità si erano presentate e oggi il “non fare” incarna la strenua difesa di un modello non più sostenibile e sempre più perdente anche perchè difendere un sistema non più sostenibile significa dare ampio spazio proprio ai “nemici” contro cui si dichiara di combattere.

A nulla valgono i tuoni e i fulmini contro il terzo pagante e la mutualizzazione dei costi quando gli studi si trovano a restringere sempre più i giorni e gli orari di attività e a dover inesorabilmente confrontarsi con il fenomeno della “poltrona vuota” con la conseguenza che singolarmente – e quindi a condizioni certamente meno vantaggiose – gli studi aderiscono alle varie convenzioni dei vari “terzi paganti”.

A nulla valgono le invettive, spesso giustificate, sulla qualità delle prestazioni delle varie forme di low cost, di franchising e dello stesso turismo odontoiatrico se l’intero sistema dentale non è in grado di offrire un modello alternativo dove la qualità della prestazione sia più alla portata di ampie fasce di popolazione e non solo dei ceti più abbienti.

Non sono questi fenomeni (low cost, franchising, turismo odontoiatrico, alcuna gestione concordata del convenzionamento con i tanti “terzo pagante”) i figli legittimi della inazione di tutti questi anni?
Altri che non siano gli odontoiatri e chi li rappresenta non debbono occuparsi di odontoiatria e delle sue dinamiche con particolare riferimento agli accessi alle cure?

Ed allora sino a quando l’associazione delle industrie del dentale potrà accontentarsi delle percentuali di aumento dell’export – peraltro alle prese sempre più con la concorrenza dei BRICS – e sopportare il calo vertiginoso della domanda interna di beni e servizi, con punte drammatiche per le industrie “technician oriented”? Sino a quando i laboratori odontotecnici potranno sopportare la mortalità delle loro presenze sul mercato visto che negli ultimi cinque anni ne sono scomparsi dall’attività quasi un terzo? Sino a quando infine i pazienti dovranno accontentarsi di un drastico calo della salute orale dovuto all’impossibilità per vaste fasce di popolazione di accedere alle cure? Sino a quando i giovani odontoiatri – che peraltro hanno un cursus studiorum difficilmente spendibile in altre attività – si accontenteranno di occupazioni mal pagate, di poco prestigio e alle dipendenze altrui?

Non è forse arrivato il momento di mettersi intorno ad un tavolo, lasciando a casa i “sacri quanto inutili principi ideologici” per non essere ricordati nel futuro – tutti, non solo alcuni dei soggetti della filiera – come coloro che potevano fare qualche cosa a vantaggio dell’intero sistema e non lo hanno fatto per ignavia o per difendere strenuamente un orticello sempre più angusto e sempre meno redditizio?

Abbiamo salutato con grande soddisfazione la ricompattazione dell’intero mondo odontoiatrico nelle sue diverse declinazioni (accademica, ordinistica e associativa) come elemento in grado di evitare certe perniciose dinamiche negative del passato e come “condicio sine qua non” per sviluppare comuni elaborazioni e iniziative.

Si, quel momento è arrivato e maggiore sarà la consapevolezza del momento minori saranno in futuro le responsabilità da fuggire. Noi non ci vogliamo rassegnare e ci proveremo con tutte le nostre forze, consci del poco peso politico che siamo in grado di esprimere ma della grande volontà che siamo in grado di mettere in campo. Non vogliamo essere costretti ad affermare, come Ennio Flaiano riflettendo sui suoi tempi: “Coraggio, il meglio è già passato”.

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