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In tempi bui meglio un trust per tutelare quel che si ha?

Alfredo Piccaluga

Alfredo Piccaluga

mar. 12 marzo 2013

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In un periodo caratterizzato da molteplici incertezze lavorative, da economie nazionali inferme, da welfare scricchiolanti e precari, oltre che da un malcelato attacco verso le professioni, vilipese ormai dalle stesse istituzioni, gli imperativi d’un professionista debbono essere sostanzialmente due: tutelare quanto in proprio possesso, ossia il patrimonio;

E seguire nuove strade di sviluppo personale per adattarsi tempestivamente a quelle che saranno le fonti di reddito future.
Per ciò che attiene il primo imperativo, troppo spesso disatteso o affrontato con superficialità, può essere opportuno un breve riepilogo dei principali istituti offerti dalla normativa oggi in vigore.
Si ritiene sovente che la tutela patrimoniale sia argomento di un qualche interesse solo per coloro che hanno potuto, o saputo, accumulare beni in misura sostanziosa, mentre ben poche attenzioni si riservano ai propri beni se ritenuti insufficientemente cospicui. Per esempio, una casa di proprietà, magari gravata da un mutuo ipotecario, uno studio attrezzato, ancorché in affitto, qualche piccolo investimento in titoli e/o in assicurazioni e fondi. Troppo poco perché certi argomenti, ritenuti distanti e altisonanti, solletichino il nostro interesse.
Nulla di più sbagliato. Sorvolando sul fatto che la sostanzialità dei beni non è un dato poi così oggettivo, merita ricordare che tanto più è essenziale il nostro avere, quanto più diviene fondamentale preservarlo.
Or bene, una volta compresa e condivisa quest’ottica prudenziale, val la pena esordire in questa piccola sintesi con un cenno allo strumento più “modaiolo” degli ultimi anni: il trust. Istituto di origine anglosassone che trova applicazione in diversi ambiti della legislazione italiana, da quando il nostro ordinamento giuridico ha ratificato la Convenzione dell’Aja del 1° luglio 1985.
Il suo ingresso è stato, in realtà, decisamente graduale. Prima del 1992 non ve n’era sostanzialmente traccia, ed anche successivamente è rimasto a lungo in odore di scomunica. Solo con la Finanziaria del 2007 venne introdotta un’espressa disciplina in materia di trattamento tributario del trust ai fini delle imposte dirette, sdoganando di fatto questo strumento presso il grande pubblico.
Si tratta di una forma negoziale complessa consistente sostanzialmente in un soggetto (settlor o disponente) che trasferisce ad un altro (trustee) beni o diritti (o anche l’intero proprio patrimonio) affinché questi provveda ad amministrarli nell’interesse del disponente o di altro soggetto (beneficiario), oppure per il perseguimento di uno fine determinato.
L’istituto si sostanzia quindi in un rapporto giuridico fondato sul rapporto di fiducia tra settlor e trustee (trust significa infatti “affidamento”). Dalla definizione si evince la caratteristica principale del trust: i beni che vi sono inclusi, mobili o immobili, non appartengono più al settlor disponente, né ancora al beneficiario, né al trustee, il quale è mero amministratore. In realtà la proprietà dei beni o diritti oggetto del trust spetta al trustee, il quale è però gravato dall’obbligo di amministrarli nell’interesse altrui. Tali beni o diritti costituiscono quindi un patrimonio separato rispetto a quello personale del trustee e non fanno parte del regime matrimoniale o della sua successione. Nella sostanza non sono quindi più aggredibili, essendo sottratti alla pretese dei creditori di ciascuno dei tre soggetti.
La versatilità di questo istituto è ragguardevole. I trust possono essere costituiti per tutelare il proprio patrimonio immobiliare (c.d. trust immobiliari), senza ricorrere a dispendiose società, per gestire beni di diversa natura in favore di soggetti disabili (trust per disabili), rivelandosi preferibili alla convenzionale amministrazione di sostegno, per favorire i ricambi generazionali in impresa (societari) o ancora per disciplinare rapporti familiari (c.d. trust di famiglia) rivelandosi – ad esempio – la soluzione ideale e definitiva per le coppie di fatto.
È finanche prevista la creazione di trust senza indicazione di un beneficiario finale (cd. trust opachi) e, per quanto attiene la natura dei soggetti, i trustee possono essere persone ma anche società aventi come oggetto sociale l’assistenza ai clienti nell’istituzione dei trust e nella successiva gestione dei patrimoni.
Sorvolando sulle diverse sfumature immaginabili e immaginate, l’aspetto da evidenziare in questa sede è la segregazione patrimoniale per la quale i beni conferiti in trust costituiscono un patrimonio separato pressoché immune da aggressioni. In termini pratici, la stipula di un trust è complessa quel tanto che basta da richiedere l’intervento di un notaio, il quale, in genere, provvede a riepilogare i diversi negozi giuridici nascenti in un unico documento autenticabile e trascrivibile.
In termini fiscali, sebbene la circolare 11/E del 28 marzo 2012 abbia leggermente inasprito le ritenute alla fonte sul reddito imputato da trust portando l’aliquota al 20%, la recente sentenza n. 207/02/2012 della Commissione Tributaria Provinciale di Macerata, ne ha chiarito l’estraneità da imposte di successione e donazione, oltre a confermarne l’assoggettamento a sole imposte in misura fissa per ciò che attiene registro, imposte ipotecarie e imposte catastali.
La somma di tali precisazioni, che lo rendono fiscalmente più appetibile di altri e giuridicamente tutelante, dovrebbe rappresentare uno stimolo sufficiente a verificarne onerosità e vantaggi in relazione alla propria situazione patrimoniale. Si rimandano a una successiva trattazione le principali alternative al trust: dai fondi patrimoniali ai vincoli di destinazione.

 

L'articolo è stato pubblicato sul numero 3 del Dental Tribune 2013 (marzo).

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