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I voucher lavoro e la loro abolizione: l’implicita via libera al lavoro nero

A. Piccaluga

A. Piccaluga

mer. 22 marzo 2017

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Lunghe polemiche e contestazioni hanno portato lo scorso venerdì 17 marzo – data storicamente infausta – all’abrogazione dei voucher. Nell’immaginario collettivo, anche grazie a una campagna referendaria promossa da alcune sigle sindacali, i buoni lavoro erano oramai divenuti sinonimo di sfruttamento lavorativo. A torto però. Nella realtà dei fatti i voucher erano stati promossi l’oramai lontano 2003 per rappresentare l’esatto opposto. La loro introduzione permise la remunerazione legale di “mini-lavori” che altrimenti potevano essere pagati soltanto in nero: pulizie, ripetizioni scolastiche, piccoli lavori agricoli stagionali, piccole commesse nel comparto turistico.

Chi assumerebbe con busta paga una colf per le pulizie effettuate una volta al mese nella casa in campagna? E di rimando quale colf aprirebbe partita iva per fatturare l’impegno di rassettare una casa in campagna una volta al mese? La risposta a entrambi i quesiti è semplice: nessuno. Sarebbe ridicola anche l’idea e, sotto certi aspetti, anche inapplicabile. I voucher risolsero il problema.

Ricordiamo che le prestazioni di lavoro accessorio, le uniche retribuibili con i voucher, sono le attività lavorative di natura occasionale. Inizialmente questi strumenti erano pressoché sconosciuti, ma le riforme 2009 e 2010 del governo Berlusconi e quella 2012 della Fornero iniziarono a renderli popolari alle masse. Il Jobs Act di Renzi li rese infine di uso comune. Perché? Per la semplice ragione che erano stati resi snelli e funzionali, parole semi sconosciute nel nostro ordinamento. Il voucher era precompilato e poteva essere acquistato con diversi mezzi. Anche solo in tabaccheria. Il suo taglio minimo valeva 10 euro e corrispondeva a un compenso netto per il lavoratore di 7,5 euro. Il resto veniva versato direttamente agli entri previdenziali ed assicurativi che così offrivano – per la prima volta – una copertura contributiva e assicurativa a questi lavoratori.

Perché queste critiche, quindi? Secondo i critici, perché si prestano a diverse forme di abuso.
Innanzi tutto si contestava l’ammontare, ritenuto troppo esiguo rispetto alla retribuzione oraria, contestazione in se senza fondamento poiché per ogni tipo di lavoro esiste un salario minimo orario, che vale sia che il pagamento venga effettuato con voucher che per quelli effettuati con altri strumenti. Per cui, se la paga minima era di venti euro, per fare un esempio banale, al lavoratore spettavano due voucher e non uno. Oppure uno solo, ma di taglio maggiore. Se questo non fosse avvenuto, il datore di lavoro sarebbe stato sanzionato. Come in qualsiasi altro caso.

Diffusissima poi l’opinione che potesse essere utilizzato per occultare un lavoratore in nero. Per esempio si era diffusa l’idea che fosse sufficiente, per un datore di lavoro, comprare pochi voucher al giorno e impiegare però il dipendente per otto o nove ore. Una regolarizzazione solo parziale insomma. In caso di visita di un ispettore del lavoro il datore di lavoro si sarebbe poi difeso esibendo i voucher e dichiarando che il lavoratore in questione aveva lavorato solo in quella frazione oraria.

Tesi in realtà inconsistente. La tracciabilità dei voucher, già ragguardevole, venne accresciuta con il decreto legislativo n. 185 del 24 settembre 2016 che imponeva la comunicazione preventiva obbligatoria. In due parole ogni datore era tenuto a comunicare preventivamente il nome del lavoratore destinatario, il giorno in cui questi avrebbe lavorato e anche gli orari lavorativi. Se il lavoro fosse continuato per più giorni, era altresì tenuto a indicare il giorno di riposo obbligatorio. Impossibile quindi l’uso dell’escamotage ipotizzato. Se fosse accaduto, il datore di lavoro sarebbe stato sanzionato.

Atri hanno criticato la natura stessa dei voucher, ritenendoli capaci di generare un lavoro eternamente precario. L’idea era sostanzialmente che potessero essere utilizzati per pagare continuativamente i dipendenti rifuggendo così i contratti di lavoro veri e propri. Ma attenzione: il limite di retribuzione tramite voucher che ogni lavoratore può ricevere da un’impresa o da un professionista è di 2020 euro netti annui. Quindi, solo un lavoratore che riceve all’anno tale cifra potrebbe vedersi remunerato con voucher, in modo effettivamente fraudolento, anziché con un contratto convenzionale. Se accettasse di lavorare un anno intero per circa duemila euro omnicomprensivi, il suo problema sarebbe ben altro e non certo la modalità di retribuzione. Fantasie insomma.

Si è ancora ipotizzato di vedere cantieri ricolmi di operai pagati con buoni lavoro. Ancora mere fantasie: l’uso dei voucher è espressamente vietato in edilizia. Si è detto che la crisi economica potrebbe aver indotto molti lavoratori che hanno perduto la loro occupazione precedente ad accontentarsi di “mini-lavori”. Probabile, ma in questo i voucher sarebbe effetto e non causa. Insomma, condizionati da una campagna iconoclasta che andrebbe rivolta più alla congiuntura economica in se che ai singoli strumenti in uso durante la crisi, i nostri governanti hanno infine deciso di abolire questo strumento, creando così un pericoloso vuoto.

Come giustamente ha ricordato Claudio Tucci su “ll Sole 24 Ore” era sacrosanto «stanare e prevenire gli abusi – ma – abolire i buoni vorrà dire, purtroppo, condannare quasi tutto coloro che oggi li percepiscono al lavoro nero. Con buona pace di oltre 20 di riforme del lavoro che da Biagi in poi hanno cercato di porre un argine alla piaga del sommerso, bilanciando interessi di imprese e lavoratori».

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