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Uno studio sulla dentizione primaria collega l’esposizione alle tossine nei primi anni di vita all’autismo

Un nuovo studio sulla dentatura primaria ha riscontrato che sia le tempistiche sia la quantità di esposizione a certe tossine durante la gravidanza tardiva e nei primi anni di vita sono correlate al rischio di autismo (Foto: ©NakoPhotography/Shutterstock).

ven. 16 giugno 2017

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New York, Stati Uniti d’America – Alcune evidenze riscontrate nella dentizione primaria hanno suggerito che l’esposizione a tossine e sostanze nutritive specifiche sia associata al rischio di sviluppare o meno il disturbo dello spettro autistico (DSA). Lo studio mostra che i denti da latte di bambini affetti da autismo contengono più piombo tossico e meno sostanze nutritive essenziali, quali zinco e manganese, rispetto ai denti di bambini non autistici. I ricercatori, per lo sviluppo delle loro analisi, si sono concentrati sul secondo e terzo trimestre di vita e sul primo periodo postnatale.

Mentre la componente genetica del DSA è stata studiata a fondo, sono ancora poco chiari i fattori ambientali specifici e certe fasi della vita, quelle in cui alcune esposizioni possono avere un forte impatto su uno sviluppo negativo, causando disabilità intellettive e problemi di linguaggio, difficoltà attenzionali e comportamentali. Oltre all’identificazione di fattori ambientali specifici, il presente studio ha individuato periodi di sviluppo in cui la disregolazione nei primi anni di vita rappresenta il più grande rischio di sviluppare l’autismo in età più avanzata.

I ricercatori della Icahn School of Medicine di Mount Sinai, New York, hanno analizzato alcune coppie di gemelli per verificare le influenze genetiche. I dati sono stati tratti dalla ricerca “Roots of Autism and ADHD Twin Study in Sweden”, in cui avevano partecipato, nel settembre 2016, 154 coppie di gemelli, tra le quali l’11,3% di tutti i gemelli DSA presenti in Svezia nell’intervallo di età specificato.

Per determinare gli effetti che le tempistiche, la quantità e il successivo assorbimento di tossine e sostanze nutritive hanno sul rischio di contrarre l’autismo, i ricercatori di Mount Sinai hanno utilizzato biomarcatori di matrici dentali per analizzare i denti da latte raccolti da coppie di gemelli identici e diversi, dei quali almeno uno aveva una diagnosi di DSA. Hanno anche analizzato i denti di coppie di gemelli normodotati, che sono serviti come gruppo di controllo per lo studio.

Durante lo sviluppo fetale e infantile, ogni settimana si crea un nuovo strato dentale, lasciando comunque un’impronta della composizione microchimica di ogni singolo strato precedente e fornendo così una sorta di registrazione cronologica delle esposizioni che si sono avute. Il gruppo di ricerca del Senator Frank R. Lautenberg Environmental Health Sciences Laboratory di Mount Sinai ha utilizzato il laser per ricostruire queste testimonianze passate lungo le marcature incrementali, simili a quelle che utilizzano gli anelli di un albero per determinarne la storia e l’evoluzione.

«Abbiamo trovato significative divergenze rispetto all’assunzione di metalli tra i bambini affetti da DSA e i loro fratelli sani, ma solo durante determinate fasi di sviluppo», ha spiegato il dottor Manish Arora, direttore dell’Exposure Biology presso il Lautenberg Laboratory. «In particolare, nei fratelli con DSA si è riscontrata una maggiore assunzione di neurotossine e una ridotta assunzione di elementi essenziali come manganese e zinco durante la gravidanza tardiva e i primi mesi dopo la nascita, come dimostra l’analisi dei denti dei bambini. Inoltre, i livelli di presenza dei metalli a tre mesi dalla nascita sono stati predittivi della gravità di disturbo dello spettro autistico otto-dieci anni dopo».

Le cifre rilasciate dai centri per il controllo e la prevenzione delle malattie affermano che negli Stati Uniti si verifica un caso di DSA ogni 68 bambini.

Lo studio, intitolato “Fetal and postnatal metal dysregulation in autism”, è stato pubblicato online il 1 giugno sul Nature Communications journal. È stato realizzato in collaborazione con i ricercatori del Karolinska Institutet di Stoccolma e con l’Università di Göteborg in Svezia.

 

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