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Mario Roccuzzo: quando e come trattare le complicanze perimplantari

Decontaminazione superficie implantare.
m.boc

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ven. 18 settembre 2015

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A proposito di perimplantiti, eventuale e temibile sequela dopo un intervento implantare, abbiamo parlato con un affermato parodontologo, «con interessi di implantologia», come si definisce lui stesso. Si tratta di Mario Roccuzzo, chiamato a Osteology per coordinare un gruppo di esperti per una comune messa a punto sulle complicanze perimplantari.

Innanzitutto, quando optò per la parodontologia? Che cosa le fece scattare l’interesse per la materia?
Mi appassionai quando già frequentavo i corsi di perfezionamento In Svezia e in Svizzera, perché mi colpì il concetto di “salute a lungo termine”. Viviamo in epoca di alta velocità e la giusta competizione tra professionisti sembra basarsi sulla rapidità di prestazione. Mi è sempre piaciuta invece l’idea invece di fare le cose “per bene”. Per cui vedendo gli impianti posizionati negli anni tra il 1990 e il 1995 cominciai a chiedermi: “Ma per quanti anni dureranno questi impianti (soprattutto in presenza di problemi parodontali)?”. Fu così che cominciai a raccogliere dati che furono la base per alcuni studi che poi ho pubblicato.

A proposito di complicanze, la più temibile è certamente la perimplantite. Che cos’è? Può illustrarne le caratteristiche?
Premetto subito che il termine etimologicamente non è corretto: la perimplantite è infatti un insieme di complicanze biologiche causa di infiammazione diffusa e perdita di osso attorno agli impianti. Si distingue dalla mucosite, che è altresì un’infiammazione dei tessuti molli attorno agli impianti, ma senza compromissione ossea.

Chi ne ha più paura: il paziente o il dentista?
Finché non ha disturbi il paziente ignora semplicemente il problema, mentre il dentista in genere non va alla ricerca dei sintomi. Diciamo che entrambi mettono la testa sotto il tappeto.
Con quale frequenza il dentista s’imbatte nella perimplantite nella pratica quotidiana?
Come parodontologo il mio approccio con la perimplantite è ovviamente quotidiano. Ma mentre una volta ricevevo più raramente richieste di consulenze da parte di colleghi, oggi è divenuta anch’essa una prassi quasi quotidiana per le complicanze: quindi per trattamenti chirurgici o addirittura per la rimozione degli impianti, perché spesso la complicanza viene intercettata tardi, quando purtroppo ormai l’unica possibilità è l’espianto. Se invece l’intercettazione avviene prima, la perimplantite può essere trattata con successo. In ogni caso se anche il pericolo viene intercettato in tempo, non è detto che il paziente si lasci facilmente convincere a sottoporsi a cure preventive, come capita del resto anche in altri ambiti della medicina.

Qual è un follow-up “tranquillizzante” per il paziente, ma anche per l’operatore?
Le probabilità di successo sono elevatissime. Una statistica dice che in 10 anni dall’inserimento dell’impianto le probabilità di complicanze sono del 2-3%. Ma se il soggetto è fumatore, è affetto da malattia parodontale, se non si sottopone a controlli, se non cura l’igiene orale, le probabilità aumentano. Molto dipende quindi dalla compliance del paziente.

Può accennare ai suoi contributi nella ricerca?
Il mio contributo sul Journal of Clinical Peirodontology, nostra rivista di riferimento, prende in esame due passaggi fondamentali: la decontaminazione delle superfici implantari, effettuabile con tecniche varie e più o meno sofisticate e l’approccio rigenerativo/ricostruttivo mediante osso deproteinizzato bovino, fonte di risultati eccellenti e stabili nel tempo.

Quando adottare o no la chirurgia rigenerativa?
È indicata quando la perimplantite ha compromesso l’osso di supporto, creando un difetto intraosseo verticale, cercando quindi di ridurre il riassorbimento osseo. Non lo è invece quando abbiamo un riassorbimento orizzontale, quando, insomma non ci sono crateri da colmare.

Lei ha descritto la sua visione su come trattare la perimplantite. Ma quale è quella della comunità scientifica internazionale?
Pur nella varietà di correnti di pensiero, la decontaminazione appare uno dei due punti su cui c’è una condivisione dichiarata. L’altro è invece la necessità di una igiene orale rigorosa, severa, per ostacolare l’ingresso microbico a livello orale. Una domanda ancora aperta, ancora senza risposta, è se sia meglio un approccio rigenerativo piuttosto che resettivo. Così come non esiste una chiara definizione quando un impianto debba essere trattato o rimosso: in realtà, se è mobile, se presenta difetti in prossimità dell’apice e circostanze che non possono essere trattate, allora l’espianto appare necessario. Parlando più in generale quanto più precocemente la perimplantite verrà diagnosticata, tanto più probabile sarà il successo del trattamento.

La perimplantite costituisce un freno alle sorti magnifiche e progressive dell’implantologia?
No, perché non sufficientemente conosciuta. Solo una fetta dei pazienti odontoiatrici ha un’informazione adeguata: in realtà l’approccio all’implantologia di molti pazienti appare ispirato dal marketing o da promozioni finanziarie. Secondo me la corretta informazione al paziente, nella maggior parte dei casi, è del tutto carente.

A Osteology lei coordinerà l’Experts forum. Può dirci in che cosa consiste?
Delle complicanze di perimplantite si parla a sproposito, con toni apocalittici oppure minimizzandone la gravità. Abbiamo quindi voluto mettere insieme vari esperti di complicanze per fare il punto. Una cosa mi sento di assicurare: il programma sarà al servizio dei partecipanti, non dei relatori.

Grazie per l’intervista.

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L'articolo è stato pubblicato su Implant Tribune Italian Edition, settembre 2015.

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