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Nuovo colpo di mannaia della Cassazione sulla famigerata IRAP, l’imposta più odiata dai professionisti

A. Piccaluga

A. Piccaluga

mar. 20 settembre 2016

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L’ultima sentenza della Suprema Corte ci porta nuovamente a discutere sulla famigerata IRAP. Per i più fortunati che ancora non lo sapessero, è un acronimo che ci permette di identificare la cosiddetta Imposta Regionale Attività Produttive.

È insomma un’imposta, che in quanto regionale, avrebbe dovuto favorire l’autofinanziamento degli Enti locali. E sebbene la sua aliquota non sia tra le più gravose, è sicuramente tra quelle più odiate e controverse del nostro ordinamento giuridico. In particolare dai professionisti, che ne eccepiscono finanche la legittimità.
L’hanno eccepita addirittura in sede europea, dove già la Commissione tributaria provinciale di Cremona – con ordinanza di rinvio pregiudiziale ex art. 234 del Trattato – aveva avanzato alla Corte di giustizia la tesi che fosse in contrasto con la direttiva del Consiglio 17 maggio 1977, n. 77/388/CEE (VI direttiva CEE).

Ma facciamo un passo indietro. Stiamo parlando di un’imposta strettamente legata al fatturato e che colpisce tutti coloro i quali esercitano un’attività, anche se non commerciale. Quali le perplessità allora? A onor del vero, molte. Innanzi tutto l’IRAP non colpisce il reddito o il patrimonio, bensì il valore della produzione netta. Ossia una grandezza tutta nuova, data dalla capacità produttiva, il che (se ne converrà) equivale a mortificare la produttività stessa dell’impresa.
I professionisti inoltre, e a ragione, eccepiscono di non essere produttori di alcunché – avendo la loro attività natura professionale e non produttiva – e si dichiarano da anni estranei alla vicenda. A gamba tesa sul dibattito sono poi subentrate una serie di eccezioni, che non stiamo a elencare, che vorrebbero tra l’altro l’IRAP illegittima in quanto sostanziale duplicato dell’IVA. Più volte i professionisti, dinnanzi a giudici ordinari e tributari, hanno dichiarato la loro estraneità all’imposta proprio basandosi sul fatto che le loro attività non sono produttive di alcunché, bensì professionali, sentendosi però rispondere, altrettante volte, che l’esistenza di dipendenti, immobili o strutture organizzate era condizione sufficiente a riconoscere una realtà produttiva. Quindi una base imponibile tassabile.

Il vento però, lentamente ma costantemente, nel frattempo è cambiato. La Cassazione con sentenze dalla n. 3672 alla n. 3682, depositate tutte il 16 febbraio 2007, ha imposto la prima grande frenata all’applicazione generalizzato del tributo, stabilendo che il professionista debba soggiacervi solo se dotato di autonoma organizzazione. Le stesse hanno poi stabilito che i casi di assoggettamento andavano valutati di volta in volta, non potendosi generalizzare.
Ma come valutare l’esistenza o meno di un’autonoma organizzazione nel caso dei professionisti? Innanzitutto, a detta dell’erario, vi è organizzazione se vi sono dipendenti. La Commissione tributaria regionale di Roma 238/01/2013 ha però chiarito che non basta la presenza di dipendenti per poter parlare di struttura produttiva o autonoma organizzazione. In assenza di professionista, l’organizzazione non c’è. Può una segretaria amministrativa o un’assistente di poltrona operare un’estrazione? No. Di qui la ratio della sentenza.

In questo senso la stessa Agenzia delle Entrate, con la risoluzione n. 118 del 28 maggio 2003, ha dovuto in qualche modo convenirne. Con sentenza 19 dicembre 2014 n. 26991, la Cassazione è poi entrata ancor più nello specifico nel chiarire che non è assoggettabile all’IRAP il professionista che si avvale di una segreteria la quale è di mero ausilio per lo svolgimento dell’attività.
Restava ovviamente l’ipotesi del professionista con dipendenti qualificati. Ma anche in quel caso l’imposta non è dovuta se il dipendente non è strutturalmente inserito nell’organizzazione del professionista, magari perché collaboratore occasionale (Cassazione n. 4111/2014). E anche se la collaborazione fosse continuativa, non è egualmente dovuto il tributo se il dipendente in questione non opera a tempo pieno (Cassazione n. 26982/2014), poiché non costituisce, di per sé, elemento comprovante la presenza di un’autonoma organizzazione produttiva l’avvalersi in modo non occasionale di un dipendente part-time

La recente sentenza n. 9451/2016 è calata infine come una mannaia, sancendo in maniera inequivocabile che l’esistenza di un solo dipendente non è condizione sufficiente per l’applicazione dell’imposta. Insomma: perché si possa parlare di «autonoma organizzazione» il professionista dovrebbe impiegare due o più dipendenti a tempo pieno e indeterminato. Però, qualificati e in grado di sostituirlo almeno in parte.
Venuta così meno l’opportunità di considerare ipso facto autonoma organizzazione ogni realtà professionale dotata di personale dipendente, l’offensiva erariale avrebbe senza alcun dubbio concentrato le sue attenzioni sul secondo elemento in grado di caratterizzare una struttura: ossia l’esistenza di grossi investimenti strutturali. Ma con un tempismo che sembra porre fine a ogni velleità totalitaria del fisco, è ora intervenuta l’Ordinanza n. 17392/2016 della Cassazione stabilendo che anche una spesa consistente riferita all’acquisto di un macchinario indispensabile per l’esercizio della professione può rilevarsi inidonea a significare l’esistenza del presupposto impositivo dell’autonoma organizzazione.
Anche in questo caso la Corte ha saputo andare oltre la filosofia squisitamente imprenditoriale, che vede nei grandi investimenti il segnale di una crescita produttiva, rapportando gli acquisti alla funzione cui sono dedicati. Se cioè indipendentemente dalla sua complessità o costo l’attrezzatura in sé si riveli indispensabile all’esercizio dell’attività professionale, tale acquisto non può essere interpretato alla stregua di crescita strutturale e come tale soggiacere a imposta sul valore della produzione netta.

Non possiamo che apprezzare la qualità dell’intervento dei giudici supremi, come anche la fortunata scelta dei tempi, e auspicare che a quest’ultima sentenza segua finalmente una presa di posizione netta da parte del legislatore, che chiarisca per legge quell’estraneità alla norma così lentamente delineatasi con la giurisprudenza.

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