Nel giugno 2012 un odontoiatra di Messina veniva condannato per il reato di lesioni personali colpose a danno di una paziente, con conseguente condanna al risarcimento dei danni nella parte civile, per averle installato numerose protesi a base di nichel (in particolare, corone). La paziente aveva sviluppato una dermatite allergica dalla quale le erano derivate lesioni personali gravi. Per il Tribunale di primo grado, nel fare ciò l’odontoiatra avrebbe violato «i tradizionali parametri della colpa generica», avendo proceduto alla installazione delle protesi seppur consapevole dell’allergia.
Nel novembre del 2014 il medico è stato assolto in appello «perché il fatto non costituisce reato», una formula di quelle previste dall’art. 530 c.p.p. impiegata in particolare quando sia accertato l’elemento oggettivo del reato (cioè l’esistenza di un episodio che, in astratto, nei suoi elementi materiali, potrebbe costituirlo), ma manchi l’elemento soggettivo della colpa o del dolo: una situazione in cui il soggetto l’ha fatto «senza l’intenzione» di nuocere o, come in questo caso, con negligenza.
La Corte d’appello, si legge in sentenza, era giunta a tale conclusione «sul presupposto (peraltro corretto) secondo cui, all’epoca dell’intervento dell’imputato sulla parte civile, non era ancora nota, neppure alla stessa paziente, la relativa allergia al nichel». L’imputato aveva presentato ricorso per Cassazione chiedendo di essere assolto con la formula «perché il fatto non sussiste» in quanto, a suo modo di vedere, non si era provato il fatto che fosse stato lui a installare la protesi al nichel “incriminata”, né che tra tale installazione e la dermatite allergica della paziente vi fosse un nesso causale.
La parte civile aveva proposto contro-ricorso, chiedendo di riesaminare prove e testimonianze acquisite, ritenendo che da esse emergesse una pregressa conoscenza dell’allergia da parte dell’odontoiatra e una violazione del dovere di informazione per aver questi ignorato l’allergia stessa «emersa dalle testimonianze». La Corte di Cassazione aveva accolto il ricorso del medico, rigettando quello della parte civile. Dal riesame delle carte, infatti, è emerso che la Corte d’appello aveva «dapprima raggiunto la conclusione dell’insussistenza di alcuna prova sulla circostanza che le protesi posizionate dall’imputato […] fossero di nichel», per poi sottolineare l’irriducibile lacunosità della stessa prova del nesso di causalità tra le gravi lesioni denunciate dalla querelante e il posizionamento delle corone da parte dell’imputato, essendo piuttosto emerso che le patologie accusate potevano piuttosto qualificarsi «come conseguenza di altra patologia». La dermatite era risultata presente infatti, anche dopo la rimozione di ogni contatto con il metallo.
La Corte di Cassazione non ha esaminato, in quanto irrilevante, il punto sollevato dalla parte civile circa il fatto che il “consenso informato” fosse stato – a suo dire – disatteso. Dalla narrazione emerge che la stessa parte ha tentato di dimostrare con testimonianze che in effetti l’anamnesi alla base del contenuto del consenso informato non rispondeva a verità, a causa di una negligenza del medico. La Cassazione non ha ritenuto di seguire la parte civile su questa strada: il consenso informato, come insegna la stessa Corte (Cass. pen. Sez. IV, 16/01/2008, n. 11335, in Giur. It., 2008, 10, 2283), costituisce un presupposto di liceità del trattamento.
Ora, se è vero che «l’inidoneità del consenso (in quanto non esauriente, NdA) impedisce di invocare la scriminante e impone un nuovo giudizio sui fatti» (ibid.) ciò non vuol dire che si possa semplicemente ignorare che un consenso informato è stato prestato. Al contrario: un consenso (informato, basato su una anamnesi consapevole e clinicamente corretta) è una base ragionevolmente sicura, come insegna questo caso, per escludere la responsabilità penale per colpa medica.
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