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Quando ho iniziato a occuparmi di implantologia, purtroppo ormai molti anni orsono, ricordo molto bene di quanto la procedura fosse pioneristica ed anche estremamente scrupolosa: una importante azienda quasi a monopolizzare non solo il mercato ma anche la formazione dei pochi che si cimentavano in questa disciplina che, seppur ben più antica come origini, solo in quegli anni iniziava ad avere l’inquadramento scientifico e pragmatico che richiedeva e meritava. La mia formazione chirurgica mi permise di comprendere subito e molto chiaramente le giuste motivazioni che portavano, allora, a un attento e scrupoloso rispetto dei protocolli, ad una adeguata preparazione del campo operatorio, alla giusta attenzione alla sterilità, alla gestione del paziente che riceveva un innesto di un corpo estraneo con l’aspettativa che lo stesso potesse durare quanto meno il più a lungo possibile. E tutto questo, allora, era appannaggio di pochi operatori, che con la giusta attenzione si preoccupavano di elaborare questi piani di trattamento per i propri pazienti e per quelli inviati dai colleghi.
Da allora ad oggi ho assistito, devo ammettere con grandi perplessità e non poche preoccupazioni, ad un progressivo processo di involgarimento della procedura, che se da un lato ha portato ad una sua giusta maggior diffusione dall’altro ha anche portato con se un declino pericoloso delle regole, dei protocolli, delle attenzioni, molto spesso anche degli scrupoli degli operatori.
Così come nella chirurgia rigenerativa, alla fase di sviluppo e di consolidamento della tecnica è giustamente conseguita la fase della semplificazione che ha portato la terapia implantologica alla portata di molti più operatori, e questo a beneficio di una fascia più ampia di pazienti meno costretti a lunghi ed a volte superflui viaggi della speranza per andare a farsi trattare dall’illustre collega a molti chilometri di distanza.
Ma purtroppo questa veloce diffusione e crescita non ha seguito quelle che a mio modo di vedere erano le giuste e rigorose sequenze. Non è mio compito entrare nel merito dei percorsi formativi universitari, non sempre adeguati a formare operatori con le dovute competenze chirurgiche. Ma chi può e chi sa realmente praticare l’implantologia? Quanti operatori si professano tali, in carenza peraltro di un vero e proprio titolo accademico in tal senso, abilitati a ciò solo da un corso di un fine settimana presso una azienda (quelli che gli americani definiscono i week end warriors)?
Nelle mie attività didattiche, non solo nazionali ma anche e sempre più internazionali, incontro con piacere molti colleghi seri, preparati e con tutte le necessarie competenze; ma mi imbatto anche spesso in colleghi che non danno a questa disciplina la dovuta attenzione. Il mio corso di anatomia chirurgica su Cadavere giunto alla 15 edizione mi ha spesso e tristemente riconfermato di come molti si approccino alla chirurgia orale totalmente a digiuno delle conoscenze base dell’anatomia, indispensabili fin dal primo momento che è quello di una adeguata anestesia basata sulla conoscenza dei reperti anatomici.
A questo molto spesso si aggiunge una scarsa attenzione per le norme basilari della chirurgia, come se fare un lembo ed inserire un impianto possa essere un atto banale e privo di rischi, quasi un lavoro da qualificato falegname: quando chiedo cosa fare in caso di lesione arteriosa troppo spesso vedo fare gesti scaramantici e scongiuri invece di impugnare un Klemer!
Tipico fenomeno italiano, purtroppo, è anche quello di orientarsi verso impianti cloni o di dubbia provenienza, spesso senza alcuna ricerca alle spalle, facendo si che il paziente trattato diventi inconsapevole parte di una nuova sperimentazione: ha senso fare questo, ha senso risparmiare magari 50 o 100 euro per un oggetto che dovrebbe avere pari dignità di una protesi d’anca o di femore, e che dovrebbe auspicabilmente restare per tutta la vita nella bocca del paziente? E questa scelta, ahimè, non ha almeno come contropartita quello di erogare questo intervento ad un prezzo inferiore e quindi più accessibile per il paziente, ma allo stesso prezzo, con l’unico intento di un maggior profitto.
Di questi ultimi anni un altro virale fenomeno, ancora una volta con una grande e colpevole interferenza da parte di molte aziende: il tentativo di banalizzare, vorrei quasi dire volgarizzare, la procedura implantologica sostenendo che con i nuovi ausili radiologici, i nuovi software, i nuovi sistemi di progettazione, le nuove mascherine chirurgiche e quant’altro chiunque, quasi senza più necessità di competenza ed esperienza, spesso senza lembo di accesso chirurgico, possa professarsi implantologo. Ecco quindi la comparsa dei denti in 24 ore, dei carichi immediati estremi, degli “all on four” ad ogni costo e condizione, al flapless per tutti. Mettiamo l’impianto e carichiamo, poi cosa accadrà in futuro sarà un ‘altra storia. ISQ, frequenza di risonanza , verifiche della stabilità, congruità dei carichi e delle riabilitazioni protesiche, condizioni generali di salute del paziente e sue capacità nel gestire il lavoro proposto, valutazione preventiva di come gestire un eventuale insuccesso riducendo danni ed effetti collaterali? Tutte sciocchezze ed inutili sofismi di qualche vecchio solone quale mi pare di essere ormai diventato insieme ad alcuni “anziani” colleghi!
Ed allora, visto che quest’anno l’Italia ospiterà il prestigioso annuale incontro dell’EAO (Accademia Europea di Osteointegrazione) ecco quello che potrebbe essere un importante spunto di riflessione, un importante elemento da considerare per chi si occupa di fare informazione scientifica di alto livello e diventa spesso punto di riferimento per la formazione dei giovani (spazio lasciato drammaticamente vuoto dalle istituzioni) o per l’aggiornamento dei più esperti. Cercare di fare un piccolo passo indietro, cercare si di portare a conoscenza di tutti quanto di nuovo esiste o esisterà sul mercato. Ma anche cercare di assumersi il gravoso impegno e responsabilità di saper dare delle linee guida reali, concrete ed attendibili. Essere meno proni ai dettami aziendali ed alle spinte commerciali, essere più pragmatici ed insegnare a distinguere il vero dal falso, il concretamente realizzabile dalla nuova “popolazione odontoiatrica” che giustamente si vuole occupare di implantologia da quanto invece quasi miracolistico e ottenibile solo da mani super esperte. Capire che mettere un impianto è una procedura chirurgica fatta su un paziente vivo che ci mette nelle mani non solo i suoi soldi ma anche e soprattutto il suo bene più prezioso, cioè la sua salute e la sua fiducia.
Abbiamo una pletora di attività scientifiche e didattiche, troppo spesso solo vetrine e passerelle per alcuni relatori, peraltro non sempre adeguati o meritevoli di essere sul podio: utilizziamo questo prezioso strumento per quello che dovrebbe essere in realtà, e cioè uno spazio per portare l’esperienza di chi è più esperto a vantaggio di chi lo è di meno, un modo per condividere errori, per dire davvero cosa fare, per essere a volte capaci di cantare fuori dal coro o per insegnare a fare un passo indietro, per applicare il buon vecchio assioma che “more is less”.
E, ancora e soprattutto, riportare il paziente al centro del nostro piano di trattamento: il nostro paziente non vuole assistere alle nostre esibizioni professionali, a volte solo fatte a beneficio del nostro orgoglio o di una ulteriore bella sequenza fotografica. Il nostro paziente vuole solo e sempre la soluzione del SUO problema, che lo ha portato da noi, e che noi dobbiamo affrontare secondo scienza e coscienza e basandoci su delle solide e consolidate basi scientifiche, ma anche applicabili dalle MIE reali competenze. Non tutto ciò che si può fare io lo so fare.
Ed allora, con più umiltà e giusta formazione e competenza, potremo tornare a dare alla nostra professione la dignità scientifica e culturale che altrimenti rischia seriamente di perdere, a scapito dei tanti seri professionisti che continuano a credere in questa professione ed esercitarla nel modo migliore e secondo veri criteri di eccellenza.
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