Sono trascorsi ormai diversi mesi in cui gli italiani sono stati invasi dalla questione Jobs Act, che altro non dovrebbe essere che la prova del governo Renzi di riformare finalmente e definitivamente il mercato del lavoro. Il dibattito politico sul tema nelle ultime settimane si è trasformato in una legge delega che è al vaglio della Commissione Lavoro del Senato.
Un disegno di legge che tocca questioni tanto delicate quanto diverse: dal riassetto delle tipologie contrattuali al rafforzamento delle politiche attive del lavoro, dalla razionalizzazione dell’attività ispettiva alla revisione degli ammortizzatori sociali, con particolare riferimento alle casse integrazioni e ai contratti di solidarietà. Ma per far attribuire credibilità al nostro Premier nei mercati finanziari e in Europa, il dibattito che interessa maggiormente avviene intorno all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori: norma ormai “storica” che rappresenta la naturale contrapposizione ideologica tra coloro che la elevano a baluardo della tutela dei diritti dei lavoratori dalle improprie ingerenze della controparte datoriale e coloro che la connotano quale mero tabù ideologico, reo di scoraggiare gli investimenti produttivi nel Paese.
Ricordo che già il legislatore del 2012 (in quella riforma firmata dall’allora Ministro Fornero) intervenne sulla disposizione prevedendo il reintegro solo in caso di licenziamento nullo, ossia discriminatorio ovvero intimato in concomitanza con la maternità o il matrimonio, e illegittimo, limitatamente alle fattispecie più gravi: mancanza di giusta causa o giustificato motivo soggettivo, nell’ambito del licenziamento disciplinare, ovvero palese infondatezza delle ragioni di carattere economico addotte a base dell’interruzione del rapporto di lavoro (ad esempio, il licenziamento per motivi economici).
Oggi l’Esecutivo non nasconde di voler organicamente superare questo impianto normativo allora realizzato pur senza accusare di insensatezza le precedenti previsioni legislative, che di fatto hanno aggravato i contenziosi giudiziari in aziende con più di 15 dipendenti. Ma in questo accanito movimento riformista, bastava ricordarsi che l’art. 8 del D.L. n. 138/2011 introduce la possibilità del contratto collettivo di secondo livello che, sottoscritto sulla base di un criterio maggioritario, non solo consente di espletare efficacia erga omnes, ma anche di derogare il contratto di categoria e la legge. Se qualcuno degli attuali politici avesse letto il punto e) del comma 2 dell’art. 8, esso prevede espressamente che gli accordi collettivi decentrati possano disciplinare le “conseguenze del recesso dal rapporto di lavoro”, fatta eccezione per i casi di nullità del licenziamento.
Questo è il mio timido tentativo per cercare di far capire (soprattutto ai politici e ai tecnici) che a distanza di oltre tre anni dall’attuale dibattito sull’articolo 18, un tentativo di superarlo attraverso la contrattazione collettiva di prossimità è stato intrapreso. A questo si aggiunge un’arretratezza di gran parte dei sindacati dei lavoratori che, orientati a mantenere in piedi un “totem” come l’articolo 18, non si rendono conto che l’Italia perde ogni giorno posti di lavoro e ha tra i giovani di età compresa tra i 18 e 29 anni una disoccupazione che supera il 40%, facendo loro “subire” un mercato del lavoro adeguatosi alla frenesia dell’informatizzazione e di Internet, ma dove, chi doveva tutelarli, ha passato gli ultimi cinquant’anni a guardarsi indietro e mai avanti. Una malattia non solo sindacale, ma anche politica.
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