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La Legge di Stabilità 2015 nasconde un mini condono?

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A. Piccaluga

A. Piccaluga

ven. 30 gennaio 2015

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Un condono… molti lo bramano ed altrettanti lo disdegnano. Diverse la ragioni, spesso frutto di esperienze personali. Talvolta di preconcetti. C’è da dire che la tradizione delle sanatorie in Italia è antica e radicata. I soli condoni fiscali – per tacere di quelli edilizi, previdenziali o valutari – si sono alternati periodicamente sin dagli anni settanta. Ne abbiamo avuti nel 1973 su iniziativa di Emilio Colombo, nel 1982 e nel 1991 con Rino Formica, nel 1995 con Augusto Fantozzi, nel 2003 e 2009 con Giulio Tremonti.

Ma la maggior parte delle sanatorie, perché di questo si tratta, sono state proposte dal legislatore in sordina. Senza particolare clamore. Affinché i soli “addetti ai lavori” ne avessero il sentore ed operassero di conseguenza. Si parla appunto di mini condoni. L’ultimo caso particolarmente noto lo si è avuto con la pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale n. 302 del 29/12/2012 della Legge n.228 del 24/12/2012 (la c.d. Legge di stabilità 2013). Si trattava di un colpo di coda del Governo Monti che nella sostanza mirava all’annullamento automatico delle “mini” cartelle esattoriali. Ossia, nello specifico, di tutte le cartelle esattoriali il cui ammontare non superava euro 2.000 e che derivavano da ruoli resi esecutivi fino al 31 dicembre 1999.

Per questioni di rilevanza degli importi e di obsolescenza dei ruoli, la notizia non ha dettato particolare clamore. Ora però la musica cambia. Nella Legge di Stabilità 2015, all’articolo 2 comma 52 si legge infatti che “le quote inesigibili di valore inferiore o pari a 300 euro non sono assoggettate al controllo”. La dizione non richiama in alcun modo la stagione dei condoni, ma va da se che il mancato assoggettamento a controlli comporta un’impunità di fatto per l’evasore o presunto tale.

Ma vediamo il perché questa rinnovata iniziativa, peraltro racchiusa solo in una frase sibillina, è ora tanto significativa. È vero che la cifra sanata è in se esigua, ma è altrettanto vero che parliamo del 70% delle posizioni ancora aperte nella riscossione locale. Una rivoluzione epocale. Questa sanatoria copre il periodo che va dal 2000 al 2013 (il pregresso risulta infatti già sanato dalla manovra Monti) e permette ad Equitalia di concentrarsi sul recupero di somme più cospicue.

All’origine non vi è certo un intento premiante in favore dell’evasore, quanto piuttosto un tentativo di ridimensionare l’operato di Equitalia. Sempre più invisa al grande pubblico e, soprattutto, sempre meno redditizia nel suo operato. Valgono circa 474,5 miliardi di euro che l’Agente di Riscossione deve ancora recuperare relativamente all’arco temporale proposto dal condono. Quasi un quinto del Pil. Una cifra sbandierata opportunamente dai vari premier nell’intento di illudere le masse che la lotta all’evasione si sarebbe rivelato il miglior sistema per rimpinguare le casse erariali.

In realtà non parliamo di sole imposte evase. La somma affidata ad Equitalia assume quella portata abnorme in virtù di un sistema sanzionatorio estremamente gravoso che non distingue tra errore ed evasione, che indulge molto sull’errore erariale ma punisce con determinazione quello del contribuente e che contempla a suo onere fino al 240% di maggiorazioni in caso di ritardi o omissioni nei versamenti. Percentuali cui si aggiungono oneri di riscossioni ed interessi. Accade così che circa la metà di quei 474,5 miliardi sia in realtà composta di sanzioni ed interessi.

Si aggiunga che buona parte delle cifre contestate è in realtà frutto di accertamenti presuntivi piuttosto lontani dal reale operato del contribuente e, spesso, dalle sue possibilità economiche. Cifre non evase, di fatto non possono essere state tesorizzate e quindi non potranno essere restituite. Una volta pignorati tutti i beni del malcapitato, Equitalia non potrà anelare a null’altro.

Infine, come ha avuto modo di sottolineare il sottosegretario all'Economia Enrico Zanetti nel question time in commissione Finanze alla Camera, un quarto dei debiti con il fisco – oltre 120 miliardi – è sostanzialmente irrecuperabile in quanto a carico di soggetti falliti. Nel tentativo di razionalizzare il recupero delle somme, si è perciò optato per questa nuova soluzione il cui fine ultimo è quello di snellire il carico lavorativo degli addetti ai lavori.

Una scelta grave, poiché – come è stato fatto rilevare – premia “migliaia di evasori seriali di multe e tributi comunali, che avevano accumulato decine di cartelle, ciascuna, però, sotto i 300 euro”. Sarebbe invece opportuno che a queste scelte ne fossero preferite altre, più consone al principio di giustizia tributaria e finalmente tese a rispettare il tanto vilipeso “statuto del contribuente”. Riaprire le posizioni scadute per decorrenza dei termini, permettere al contribuente di circostanziare gli eventi e dimostrare la reale portata del proprio operato e concentrarsi sul recupero delle somme – foss’anche in misura rateale – anziché sulla punizione in se. Sovente è la tempistica dei recuperi unita all’esosità delle sanzioni che impedisce ai contribuenti di onorare le richieste erariali.

Un atteggiamento similare gioverebbe all’Erario più che a chiunque altro, in quanto incasserebbe cifre reali anziché accumulare crediti fittizi. Ma in tempo di crisi il legislatore è interessato ai numeri da produrre sul bilancio più di quanto non lo sia al merito, perché i crediti accantonati sul Bilancio di Stato potranno essere mostrati con successo e ritiene che i maggiori costi derivanti dalla rinuncia alle piccole cartelle saranno ampliamente compensati dalla riduzione dei costi stimati per il loro recupero.

Una scelta discutibile.

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