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Medico chirurgo, odontoiatra, giornalista e divulgatore scientifico, Michele Cassetta esprime un sentimento ancora molto diffuso.
Lo ammetto, propongo ancora, anche se saltuariamente, le protesi totali, le volgari “dentiere”. Certo, seleziono accuratamente i pazienti, le suggerisco sotto voce, sarei tentato di far sottoscrivere nel consenso il dovere alla riservatezza, ma talvolta le propongo. Eseguire un bordaggio calpesta la mia dignità di raffinato protesista, ma mi procura un sottile piacere, che viene da lontano. Mentre lo faccio, i miei giovani e bravissimi consulenti mi guardano con sospetto e si domandano se sono capitati nel posto giusto per imparare la professione o se sono stati riportati indietro da una macchina del tempo.
In questo mondo di “denti fissi in giornata”, “impianti postestrattivi”, “ricostruzioni ossee”, “implantologia computer guidata”, capita ancora di imbattersi in qualche paziente che non è adatto a intraprendere questo percorso. Dopo trent’anni di esperienza riconosci subito chi non pulirà mai la Toronto e sarà sempre colpa tua se ci saranno dei problemi. Esistono diseredati, ammalati di diverse patologie, avari, paurosi, temporeggiatori che chiedono disperatamente una dentiera. In tutti questi casi nella mia mente nostalgica riemerge la seducente immagine della protesi totale che, strano a dirlo, funziona e soddisfa ancora alcune persone.
Quando si tratta di protesi totali di passaggio, in attesa dell’implantologia, allora sento meno il senso di colpa, ma tendo comunque a giustificarmi per non essere stato in grado di offrire i “denti fissi in giornata” reclamizzati sull’autobus. Cerco di far capire che, rispetto ad una vita intera, l’obbligo immotivato di andare di fretta sia spesso un’assurdità dettata dal rispettare promesse pubblicitarie e voler prendere vantaggi competitivi su colleghi più attendisti e prudenti.
Chiariamoci subito: non è che gli impianti non li sappia fare né che non sia entusiasta dei successi dell’implantologia e della computer guidata. Anzi: inserisco quotidianamente impianti e ne vedo ancora alcuni, fatti da me trent’anni fa, funzionare benissimo. E quello era davvero tempo di pionieri: sceglievi la lunghezza dell’impianto sovrapponendo lucidi millimetrati su ortopantomografie sbiadite, sperando che la distorsione non fosse più del 10%; restavi deluso quando, dopo il passaggio del bisturi, scoprivi che una cresta che sembrava spessissima era a lama di coltello. C’erano maestri che suggerivano di non fare la tronculare per capire se si stava lesionando il nervo alveolare; gli odontotecnici perdevano il sonno a modellare denti enormi o piccolissimi, da montare su impianti che sembravano sparati a caso nell’osso.
L’odontoiatria attuale, rispetto a quella di trent’anni fa, si è trasformata e fortunatamente l’implantologia è diventata pratica di routine nelle mani di quasi tutti gli odontoiatri. Ma c’è anche il rovescio della medaglia. Le terapie mediche non dovrebbero essere quelle che noi vorremmo che fossero, ma quelle adatte alla persona e al singolo caso. La notizia rivoluzionaria con la quale concludo è che la protesi mobile continua ad essere una branca dell’odontoiatria, sempre più difficile da apprendere, ma che talvolta torna utile per migliorare la qualità di vita di alcune persone. Perdere questa dimestichezza rappresenta un impoverimento delle capacità tecniche di un odontoiatra.
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