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Generazione "Always on", la tecnologia fa impazzire

La Stampa

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mar. 6 novembre 2012

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La generazione “always on” è sempre più soggetta a cambiamenti strutturali nel cervello che possono portare a diversi disturbi mentali, avvertono gli scienziati. I pericoli dell’essere sempre connessi e il sovraccarico d’informazioni crea i cosiddetti “iDisorder”.

E’ stata dagli esperti battezzata la generazione “always on”, quella sempre connessa e bersagliata da un costante sovraccarico di informazioni.
Non sono solo i giovani a esserne interessati – anche se sono loro i maggiori fruitori di tecno-gadget – ma ormai quasi tutti, dato che la tecnologia fa ormai parte del nostro quotidiano, un po’ come un’estensione dei nostri sensi o arti. Siamo infatti circondati da essa e, per quanto lo possiamo accettare o meno, non vi è praticamente scampo.

Questo essere sempre connessi con il mondo dei dati digitali, l’informazione e lo scambio di bit, ha tuttavia il suo lato della medaglia che, secondo il professor George Patton del Royal Children’s Hospital’s Centre for Adolescent Health (Australia), influisce sulla salute mentale delle persone e, in particolare, dei giovani.
Questo continuo carico eccessivo di informazioni, secondo le sempre più diffuse prove, può essere causa di cambiamenti strutturali nel cervello che, a sua volta, possono essere causa di problemi mentali.

«Vedo ragazzi che passano tutto il giorno impegnati in attività con mezzi elettronici, ed è chiaramente un problema – commenta a Stuff.con.nz il dottor Patton – Durante quegli anni dell’adolescenza quando il cervello è in una fase molto attiva di sviluppo e nell’imparare a elaborare le informazioni sulle relazioni e le emozioni, c’è un’evidente preoccupazione che questi ragazzi oggi collegati sviluppino delle diverse connessioni [cerebrali] in futuro, data la malleabilità del cervello a quell’età».
Uno tra i problemi, secondo Patton, è che i giovani «possono crescere assuefatti, e sentirsi più a proprio agio con il tipo di relazioni che avvengono in questo mondo elettronico».

I pareri come sempre sono discordi: c’è infatti chi ritiene che i vantaggi portati per esempio da Internet vadano al di là della mera condanna della tecnologia. Tuttavia, c’è anche chi ritiene che siano già evidenti i segni di una dipendenza dalla Rete e da social network come Facebook – dipendenza che può sfociare in comportamenti come l’iperattività o il disturbo ossessivo-compulsivo.
Larry Rosen, uno psicologo ed esperto statunitense che da anni studia il fenomeno ha coniato il termine “iDisorders”, per definire quelle condizioni psichiatriche come il disturbo narcisistico di personalità, manie e disturbo da deficit di attenzione innescate da un uso eccessivo di social media, tablet, smartphone e computer in genere.

Diverse indagini hanno evidenziato come i grandi fruitori di “vita attraverso uno schermo” soffrano di una riduzione dei tempi di attenzione, una difficoltà di apprendimento e nel formare relazioni sociali nel mondo reale.
«La tecnologia, per sua natura coinvolgente, sta creando molteplici problemi – sottolinea Rosen a Fairfax Australia – Incoraggia un rapido, continuo task-switching, il che significa che trattiamo le informazioni a un livello superficiale e non in profondità, quindi non siamo in grado di avere pensieri complessi, ma solo superficiali».

Come in una sorta di vizio che crea dipendenza, poi, «siamo anche alla ricerca di certe tecnologie, come i videogiochi che stimolano la produzione di alti livelli di dopamina nel cervello, che il nostro cervello interpreta come piacere e che ci spinge volerne sempre di più – aggiunge Rosen – Gli smartphone sono anche fonte di ansia per molte persone che li controllano ogni 15 minuti, o anche più spesso, per aiutare a ridurre l’ansia della mancanza delle informazioni ritenute importanti».
In sostanza, da criminalizzare o meno, la tecnologia come tutte le cose va utilizzata con equilibrio per sfruttarne tutti i vantaggi che può offrire senza cadere nella trappola dello “always on”, con il rischio che il cervello diventi “always off”.

 

Fonte: La Stampa

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