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Decreto Dignità: governo compatto… ma non troppo

Alfredo Piccaluga

Alfredo Piccaluga

lun. 23 luglio 2018

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Primo ed importante banco di prova per il nuovo Governo. Il Consiglio dei Ministri, nella seduta n. 8 dello scorso 2 luglio 2018, ha approvato il Decreto Dignità che introduce misure urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese.

Gli istituti oggetto dell’intervento normativo sono prevalentemente: il contratto a termine, la somministrazione di lavoro (a tempo determinato), l’indennità da licenziamento ingiustificato, il contributo addizionale per l’instaurazione di rapporti di lavoro diversi da quello a tempo indeterminato e le delocalizzazioni.

Il nome del decreto, chiaramente evocativo, vuole richiamare l’intenzione di contrastare alcune derive moderne che sviliscono l’individuo: precarietà e gioco d’azzardo in primis. Oltre al divieto di pubblicizzarlo, alle sanzioni per chi ha portato il lavoro all’estero e che in precedenza aveva ottenuto contributi statali e all’introduzione di aliquote più alte per i contratti a tempo determinato – vero fulcro dell’impianto normativo – sono previste anche importanti novelle per le imprese. In particolare la proroga al 2019 dell’entrata in vigore della fattura elettronica obbligatoria (strumento molto contestato per la sua farraginosità) ed il rinvio del prossimo “Spesometro”, del quale in realtà professionisti ed imprese chiedevano l’abrogazione in quanto non è altri che un duplicato di altre misure già esistenti, tra cui la famosa trasmissione TS – tessera sanitaria – prevista nel comparto sanitario. Ma per ora le richieste sono rimaste insoddisfatte.

Previsto anche il blocco dei controlli per gli anni successivi al 2016, da “redditometro” strumento  percepito come fortemente iniquo e – soprattutto – fallace, in quanto basato su parametri distanti dalla realtà economica di una famiglia nostrana. Stabilita infine l’abolizione dello split payment per i professionisti che lavorano con la pubblica amministrazione. Questa, a grandi linee, la ratio della nuova norma.

Entrando nel merito, al fine di comprenderne le finalità, va precisato che il principale intento governativo è limitare l’utilizzo dei contratti di lavoro a tempo determinato, favorendo quelli a tempo indeterminato, riducendo in tal modo il lavoro precario e riservando la contrattazione a termine ai casi di reale necessità da parte del datore di lavoro. Per ottenere questo risultato i contratti a termine non sono stati completamente debellati. È stata fatta salva infatti la possibilità di libera stipulazione tra le parti del primo contratto a tempo determinato, di durata comunque non superiore a 12 mesi di lavoro in assenza di specifiche causali, ma l’eventuale rinnovo sarà possibile esclusivamente a fronte di esigenze temporanee e limitate. In presenza di una di queste condizioni già a partire dal primo contratto sarà possibile apporre un termine comunque non superiore a 24 mesi. La grande novazione sta quindi nel ridurne le possibilità di utilizzo e, soprattutto, imporre alle imprese un obbligo di giustificarne l’eventuale utilizzo.

Per indirizzare i datori di lavoro verso forme contrattuali stabili, si prevede inoltre l’aumento dello 0,5% del contributo addizionale (attualmente pari all’1,4%) della retribuzione imponibile ai fini previdenziali, a carico del datore di lavoro, per i rapporti di lavoro subordinato non a tempo indeterminato. In caso di rinnovo di quello determinato, anche in somministrazione. Funzionerà? È presto per dirlo.

Va detto che il decreto poteva essere studiato con maggiore cura onde prevenire le eccezioni mosse in questi giorni. Con una nota tecnica la “Ragioneria di Stato” ha subito sottolineato con allarme il rischio di perdere 8mila posti di lavoro ogni anno a causa di questo decreto, ossia 80mila in dieci anni. Perché questi timori? Secondo i dati ufficiali del Ministero del Lavoro – ricavati dalle comunicazioni obbligatorie inviate dai datori – negli ultimi 3 anni il 95% dei nuovi occupati ha sottoscritto una occupazione temporanea. Dato meramente statistico ma che riflette un trend degli ultimi anni e che ha portato l’Italia sulla media europea dei lavoratori a termine.

Or bene non tutti questi contratti possono essere agevolmente riconvertiti in lavori stabili. Lo stesso sottosegretario Dario Galli, Vice di Di Maio, parla di misura insufficiente. Con un’impronta tipicamente economista sottolinea che quanto meno a latere degli aggravi per chi propone contratti a termine andrebbero previsti sgravi per chi invece sottoscrive contratti stabili: puntare sugli incentivi più che sulle penalizzazioni: «A livello del tutto personale, propongo che anziché mettere una penalizzazione del genere, s’introduca uno sgravio di mezzo punto come premio per chi stabilizza i contratti a termine. Modifica piccola ma significativa».

Parallelamente, affrontando di petto l’intera modifica paventata nel settore lavoro, Confimprese ha lanciato un vero e proprio segnale d’allarme sul progetto di legge che pone limiti alle aperture domenicali (un massimo di 12 giorni festivi l’anno per ciascuna attività commerciale e un tetto del 25% degli esercizi per ogni categoria commerciale). A dire dell’Ente, se il provvedimento passasse, il settore perderebbe il 10 per cento del fatturato e 400mila posti di lavoro.

Il primo decreto Governativo è quindi, come spesso accade, oggetto di accese discussioni, che vanno però lette positivamente da noi contribuenti, poiché rappresentano quello scambio necessario a vedere le modifiche sotto ogni prospettiva ed apporre i correttivi affinché la misura di legge esprima reale utilità per il paese.

Nel frattempo, in attesa che si chiariscano tutti i punti della norma, sappiano studi ed imprese che assumere per brevi periodi… da oggi costa un po’ di più.

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