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Criteri di prevedibilità nell’aumento dei volumi ossei: biomateriali o sostituti ossei?

Posizionamento di una membrana in collagene a protezione del sito (Biocollagen, Bioteck, Arcugnano).
D.A. Di Stefano

D.A. Di Stefano

mer. 20 aprile 2016

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Le classificazioni dell’atrofia ossea, basate sull’analisi solo anatomica del difetto in termini di profilo della cresta residua, presentano alcune limitazioni qualora esse vogliano essere impiegate come strumento predittivo del successo degli interventi di incremento dei volumi ossei.

Esse, infatti, considerano solo un sottoinsieme dei possibili difetti, non tengono conto della situazione orale complessiva e, soprattutto, non aiutano il clinico a focalizzare la propria attenzione sulle caratteristiche biologiche del difetto: quelle che, di fatto, condizioneranno effettivamente la riuscita – biologica e clinica – dell’atto rigenerativo. La classificazione anatomica dovrà essere integrata, invece, da un’analisi più fine di caratteristiche del difetto che maggiormente hanno impatto sulla probabilità di riuscita dell’evento rigenerativo e sulla sua cinetica quali, ad esempio, il numero di pareti ossee circostanti il difetto, se questo è esterno o interno al profilo crestale, l’estensione e la direzione dell’incremento desiderato, il grado di corticalizzazione del sito ricevente nonché la quantità e qualità della componente trabecolare eventualmente presente. Per potere definire la prevedibilità biologica dell’atto rigenerativo è necessario comprendere inoltre quali sono le modalità di interazione dell’innesto osseo prescelto con il tessuto ricevente già a livello cellulare.
Le componenti cellulari ossee coinvolte sono le cellule osteoblastiche e osteoclastiche nei loro diversi stadi di differenziamento. La loro interazione con l’innesto può essere diversa al variare della tipologia di materiale impiegato già in termini di adesione cellulare, evento necessario all’accadere di tutti i processi a valle che sottendono la rigenerazione ossea. L’adesione cellulare è infatti mediata da specifiche proteine di membrana (le integrine), che riconoscono altrettanto specifici segnali molecolari presenti sulla superficie del materiale innestato. Tra questi, particolare rilievo giocano specifiche sequenze amminoacidiche presenti nel collagene osseo. Il riconoscimento integrina-sequenza amminoacidica è lo specifico segnale che promuove l’adesione cellulare. Risulta chiaro, quindi, che innesti ossei privi di collagene – quali ad esempio gli innesti eterologhi resi non antigenici per via termica – non presentano condizioni altrettanto favorevoli all’adesione cellulare di innesti che, invece, conservano inalterato il collagene nativo grazie a processi differenti di fabbricazione. La conseguenza a livello istologico e, quindi, clinico è una differenza significativa nei tempi di rimodellamento ovvero, di degradazione e contemporanea sostituzione dell’innesto con tessuto osseo di nuova formazione: gli innesti a collagene osseo preservato integrato si rimodellano in tempi sostanzialmente fisiologici, laddove quelli nei quali il collagene osseo non è presente, o è presente in forma denaturata, tendono a permanere in situ più a lungo. Da un punto di vista terminologico, quindi, appare più corretto definire i primi “sostituti ossei”, vista la loro interazione quasi fisiologica con l’ambiente osseo, e i secondi invece “biomateriali”. Le ricerche immunoistochimiche danno specifica evidenza di quanto detto: gli studi eseguiti in collaborazione con l’Università di Chieti mostrano che l’espressione dei fattori di crescita tipici dell’angiogenesi (uno dei primi eventi della rigenerazione ossea) non è dissimile quando le due tipologie di materiale sono innestate in ambito clinico; tuttavia, l’adesione osteoclastica (ovvero, delle cellule deputate alla degradazione degli innesti), risulta significativamente diversa nei due casi.

 

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