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Con la fine della legislatura, perduta un’altra occasione di por mano ai problemi dell’odontoiatria

Giulio Del Mastro

Giulio Del Mastro

gio. 25 gennaio 2018

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Peccato. Siamo arrivati agli ultimi mesi di legislatura e col consueto parossismo hanno visto la luce alcuni provvedimenti che incideranno sulla professione. Come sempre, purtroppo, in modo marginale, frutto di mediazioni faticose e con un impatto sociale scarso.

La legge Lorenzin che ha (re)introdotto l’obbligatorietà di alcuni vaccini – a ragione, a parer mio – ha portato a galla, riproponendolo con forza, un concetto basilare in medicina che si chiama profilassi.

Da sempre prevenire è meglio che curare, costa meno ed è molto più efficace. A maggior ragione in una fase storica in cui la scienza comincia ad annaspare ed è a un passo dall’abdicare alla recrudescenza di alcune malattie mediate da virus o batteri diventati quasi invincibili. Questo impegnerà personale e risorse e porterà risparmi esponenziali su costi e sofferenze legati alle patologie interessate. Allora, perché non continuare con questo passo e investire in prevenzione anche in altri settori, ad esempio l’odontoiatria, che raramente finisce sui giornali ma è depositaria – tra carie e malattia parodontale – di patologie che affliggono la popolazione mondiale in maniera ubiquitaria?

Una proposta AIO abbastanza recente prevedeva di investire un importo pari alla clausola rescissoria di Cristiano Ronaldo nella sigillatura dei solchi nei bambini appartenenti alla fascia sociale Isee più penalizzata. Why not? Eppure la legge di stabilità ha visto l’ennesima riduzione delle prestazioni previste dai LEA e, soprattutto, non ha previsto fondi per la prevenzione odontoiatrica. Cosa aspettarsi di più d’altronde da una Finanziaria tesa in massima parte all’eliminazione delle clausole di salvaguardia (quasi 16 miliardi) relative alla sterilizzazione dell’Iva e delle accise con un volume di risorse residue ridotto al minimo e seminato ovunque a pioggerellina, più che a pioggia?

La vecchia definizione della differenza tra un politico e uno statista non passa mai di moda: investire in prevenzione è costoso ma, sul lungo termine, comporta vantaggi anche economici che non sono discutibili. Non paga però dal punto di vista elettorale, anche perché manca una cultura di questo tipo a tutti i livelli. Un collega mi ha recentemente raccontato di una sua amica, trasferitasi in Olanda per lavoro. In Italia per le ferie, fu costretta a tornare rapidamente ad Amsterdam per una visita di controllo e prevenzione programmata, in assenza della quale avrebbe perso ogni tipo di supporto pubblico per l’odontoiatria. Il welfare in quel paese è sicuramente una realtà, il cittadino utente si sente coccolato ma c’è un prezzo da pagare, l’acquisizione di una mentalità per noi quasi impensabile.

Comunque, quanto miope può essere uno Stato che promette dentiere agli anziani e non si preoccupa di un piano generale per aggredire in maniera efficace la malattia parodontale e quelle sistemiche collegate? Certo, lo Stato in fondo siamo noi, disponibili ai viaggi della speranza nei paesi dell’Est per tornare in Italia carichi di All-on-four (o – five o – six), in grande maggioranza inutili e destinate spesso a fallire in breve tempo, ma riluttanti verso le sedute periodiche di igiene professionale perché «tanto il tartaro poi si riforma». Quindi, perché stupirsi?

Perché lamentarsi delle catene più o meno low cost e non incidere drasticamente sul numero dei laureati che, in assenza di altre possibilità, finiscono a rimpolpare la manovalanza qualificata e sottopagata che permette a questi centri di continuare a lucrare, con una regressione davvero deprimente. Il numero programmato al corso di laurea dovrebbe essere slegato dalle disponibilità didattiche dell’ateneo e agganciato invece alle esigenze della salute pubblica. Fatto salvo il rapporto medico/paziente indicato come ottimale dall’OMS, qual è la ratio nel formare più operatori del necessario?

Ancora. È di recente introduzione la normativa sulla responsabilità professionale, reduce da una gestazione complessa e che non ha rappresentato la rivoluzione che ci si aspettava, salvo andare a incidere in maniera noiosa su alcuni dettagli – il preventivo, l’assicurazione RC – che non cambieranno la vita a nessuno. Salvo appesantire ulteriormente la burocrazia.

Non dimentichiamo la Legge sulla concorrenza e l’ingresso dei capitali nella professione, apertura potenzialmente non priva di effetti sul rapporto con il paziente, né sul rapporto tra il professionista e chi detiene il capitale. Anche il riordino degli Ordini professionali ha visto finalmente la luce, lasciando quasi tutto invariato se si esclude di aver rimpolpato numericamente le Cao provinciali, ormai quasi destituite nei fatti di potestà operativa e aver ridotto a due mandati la rieleggibilità dei rappresentanti la professione. Però… Però abbiamo finalmente una legge sulla repressione dell’abusivismo che promette bene. Non fossimo in Italia, paese ampiamente dotato di norme che tutti si fanno un punto d’onore di non rispettare, originando il caos in ogni settore che ci è proprio, ci sarebbe quasi da gioire.

A quale scopo comunque un’analisi così puntigliosa? Per condividere il rammarico sull’ennesima occasione perduta di metter mano in modo radicale ai problemi cronici dell’odontoiatria. Che sono, in sintesi, l’impossibilità per una fascia consistente di persone ad accedere a terapie di qualità e, all’opposto e ribaltando il problema, la realtà del calo di pazienti, e di fatturato, per gli odontoiatri. I termini continuano ad essere gli stessi: le terapie di qualità sono costose, il reddito pro capite ristagna, interventi a favore delle famiglie stentano a farsi strada e quindi la soluzione migliore per chi deve far quadrare i conti passa spesso dalla rinuncia.

Dai dati Istat – Rapporto sulle condizioni di salute e ricorso ai servizi sanitari in Italia e nell’Unione europea Ottobre 2017si può evincere che si rivolgono a una struttura pubblica circa il 10% dei pazienti mentre il restante sceglie un libero professionista o una struttura privata convenzionata; oltre l’80% ha pagato di tasca propria e senza rimborso alcuno. Tra coloro che possono pagare. E gli altri?

Il ripiegamento del SSN nei confronti delle prestazioni odontoiatriche negli ultimi 20-30 anni è stato disordinato, graduale, inarrestabile e non è stato vicariato da nessun tipo di assistenza surrogata, che sarebbe dovuta arrivare dai fondi integrativi. Per quanto questi negli anni siano cresciuti in modo evidente, sono tuttora insufficienti a permettere l’accesso alle cure a una fascia consistente della popolazione (vedi studio Eurispes-AIO sull’argomento).

Chi ha problemi e non vuole trascurarli è costretto, almeno finora, a rivolgersi comunque al settore privato, pagando di tasca propria. Spesso senza rimborsi perché la maggioranza di assicurazioni e fondi integrativi non coprono questo tipo di assistenza. Di fatto, la loro incidenza riveste, ancor oggi, un ruolo marginale, essendovi una platea di beneficiari ristretta, lavoratori che possono usufruire di benefit da contratto o che dispongono di un reddito sufficiente a pagare il premio e beneficiare dei sevizi offerti. Una grossa fetta della popolazione rimane, quindi, esclusa. Peraltro, non è trascurabile la crescita delle convenzioni tra studi privati e fondi, complice la crisi che ha prodotto una flessione dei pazienti per i liberi professionisti. Molti sanitari cercano risposte nelle convenzioni per recuperare competitività sul mercato e raggiungere nuovi pazienti.

Proprio per questo è scontato che si debba porre un argine allo strapotere dei fondi, intervenendo sulla contrattazione ed evitando aberrazioni economiche tali da portare detrimento all’utente finale. Infatti, il convenzionamento comporta sempre una contrazione delle tariffe, dovuto alla necessità del terzo pagante – o lucrante – di raggiungere il proprio obiettivo che non è tanto il benessere del paziente quanto l’utile di bilancio.

In questo nuovo contesto il vero problema sarà la sopravvivenza del modello libero professionale così come lo conosciamo. Il rilancio del settore odontoiatrico, in affanno in tempi di riduzione della possibilità di spesa delle famiglie, potrebbe quindi passare anche dall’aumento di detraibilità delle spese dentali, magari quelle legate alla prevenzione. L’odontoiatria entrerà sicuramente di prepotenza nella campagna elettorale. Occorrerà premere per provvedimenti che possano riportare il settore a ritrovare stabilità e recuperare un simulacro di prosperità, vigilando che con le elezioni non si esaurisca di nuovo l’interesse sull’argomento.

A pensar male si fa peccato ma, di solito, ci si azzecca.

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