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Ortodonzia 4D: dalla diagnosi morfologica al fattore tempo

In azzurro il setup dell’arcata inferiore e di 3.3 nella posizione non ideale, ma nel rispetto dei reali limiti anatomici.
M. Beretta

M. Beretta

mer. 8 ottobre 2014

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Dove eravamo rimasti? Nell’articolo precedente (si veda Dental Tribune Italian Edition, n. 3 marzo 2014, Speciale Ortho Tribune) ci eravamo occupati di scoprire e definire la semantica del significato 3.0, ovvero un’ortodonzia che sfrutta le nuove tecnologie digitali per individualizzare al massimo il piano di cura, rispondendo alle complesse esigenze del paziente, con uno sguardo attento alla biocompatibilità e alla sostenibilità, non solo strettamente legate alla sua problematica ortodontica.

È trascorso qualche mese e la nostra ricerca di nuovi spunti di riflessione da offrire al clinico esperto ha focalizzato la propria attenzione su come effettivamente le nuove tecnologie a disposizione possano cambiare il modo di fare diagnosi e piano di trattamento. Nell’era del tridimensionale sta emergendo un nuovo protagonista, il 4D. Ma cosa vuol dire? È un’ulteriore evoluzione? Nel 2007 Tiziano Baccetti e Lorenzo Franchi, in una revisione sistematica della letteratura dal titolo Efficacia e timing della terapia della malocclusione di II Classe con apparecchi ortopedico-funzionali, hanno concluso scientificamente che l’inclusione del picco di crescita puberale nel periodo di trattamento può essere considerata un fattore chiave per raggiungere l’efficacia della terapia ortopedico-funzionale sulla crescita mandibolare (Ortognatodonzia Italiana, vol. 14, n. 1 2007, pp. 13-20).
Questo significa che il corretto timing, ovvero “il momento migliore per iniziare un trattamento ortodontico”, può condizionare il raggiungimento degli obiettivi di terapia.
Questo concetto di timing è ormai molto chiaro, ma può essere arricchito di un’ulteriore accezione di dinamicità. Vediamo come. Per farlo dobbiamo tornare indietro nel tempo. Rimaniamo, quindi, in tema.
Nel 1956, Harold D. Kesling, in un articolo pubblicato sull’American Journal of Orthodontics, dal titolo “The diagnostic setup with consideration of the third dimension”, scriveva: «Dei buoni modelli in gesso devono non solo duplicare esattamente tutti i denti ma dare anche indicazioni precise sulle basi apicali. Poiché né le basi apicali né la dimensione delle radici dei denti possono essere modificate materialmente, un intelligente riposizionamento dei denti sui modelli in gesso può compensare la confusione della speculazione con una oggettiva e concreta manipolazione».
Insomma, aveva appena inventato la diagnosi morfologica e il setup.
Concludeva, infatti, dicendo: «Senza separare i denti dal modello in gesso e riposizionarli nel modo migliore possibile sulle basi ossee disponibili, l’ortodontista può solo fare supposizioni sulle possibilità e i limiti del trattamento» (Am. J. Orthodontics, October 1956, vol. 42, n. 10, pp. 740-748).
La dinamica è il ramo della meccanica che si occupa dello studio del moto dei corpi e delle sue cause o, in termini più concreti, delle circostanze che lo determinano e lo modificano.
L’ortodonzia sta evolvendo verso un concetto più dinamico di occlusione, di armonia funzionale e di interdipendenza biologica e meccanica. Fortunatamente, il progresso dal vecchio concetto statico di occlusione di Classe I a quello odierno di occlusione sostenuta dalla funzione non è completamente nuovo agli ortodontisti. Questo lo scriveva W.J. Thompson nel 1979 in un articolo sull’Angle Orthodontist, dal titolo “Occlusal plane and Overbite” (Angle Orthod, January 1979, vol. 49, n. 1, pp. 47-55). Non è un concetto nuovo!
Che cosa possono rappresentare questi due lavori per noi ortodontisti?
Forma e funzione: questo è quello che i nostri maestri ci hanno insegnato per fare una diagnosi corretta, per impostare un adeguato piano di cura e per definire gli obiettivi di stabilità e, soprattutto, di mantenibilità dei risultati dei nostri trattamenti ortodontici. Vediamo un esempio clinico di come forma e funzione condizionino diagnosi e prognosi.
Materiali e metodi
La paziente, di anni 25, trattata ortodonticamente in passato con apparecchiatura ortodontica fissa, si presenta alla nostra attenzione a causa della progressiva scopertura della radice dell’elemento 4.1, dell’aumento della sensibilità dello stesso e della difficoltà a mantenere un’adeguata igiene orale domiciliare, riferendo di essere anche già stata sottoposta, senza successo, a intervento di chirurgia parodontale. All’esame clinico si evidenzia una grave recessione gengivale dell’elemento in oggetto, associata a vestibolarizzazione della radice e contatto traumatico con l’antagonista per estrusione. Presenta inoltre una contenzione fissa all’arcata inferiore, da 3.2 a 4.2, ripetutamente riparata (Figg. 1-3).
La vecchia contenzione fissa, la cui gestione nel tempo è stata scorretta, si è trasformata in un retainer attivo non voluto, che mediante una coppia di forze sull’elemento 4.1 ne ha provocato un torque radicolo-vestibolare incontrollato. Una corretta diagnosi morfologica deve considerare la posizione tridimensionale della radice nel processo alveolare e non limitarsi a rilevare la recessione gengivale vestibolare, la cui sola considerazione ha già portato a un precedente insuccesso terapeutico.
Il piano di trattamento ha previsto la rimozione del vecchio retainer e l’applicazione di una apparecchiatura linguale fissa mediante attacchi autoleganti i-TT da 3.4 a 4.4, con l’obiettivo di livellare, allineare, il gruppo frontale inferiore e correggere il torque radicolare di 4.1, eliminando il trauma occlusale da precontatto deflettente con 1.1, al fine di consentire il recupero di adeguate condizioni di salute parodontale e mantenibilità igienica. Dopo 8 settimane dalla rimozione del vecchio retainer e contestuale bondaggio linguale, la correzione ortodontica del caso è ultimata. La recessione gengivale vestibolare di 4.1 risulta notevolmente migliorata, solo grazie al suo riposizionamento in un contesto parodontale adeguato, che ha inoltre migliorato le condizioni di mantenibilità igienica. L’apparecchiatura linguale, molto ben tollerata dalla paziente, viene mantenuta in arcata come contenzione fissa (Figg. 4-8).
In quell’occasione, prima del trattamento, venne effettuata una ortopantomografia che non diede evidenti contributi alla diagnosi clinica morfologica.
Ci sarebbe servita una teleradiografia latero-laterale in questo caso? Certamente no. Come ci dobbiamo comportare, dunque, con le radiografie?
In un editoriale dell’American Journal of Orthodontics del 2008, David L. Turpin scrive: «Se in un bambino di 8 anni cerchi di palpare intraoralmente i canini mascellari e sospetti che potrebbero avere un percorso di eruzione difficoltoso, allora devi considerare di fare una radiografia».
Sempre nello stesso editoriale si leggono le seguenti raccomandazioni della British Orthodontics Society:

  • una radiografia dovrebbe essere effettuata solo dopo un accurato esame clinico e quando consente un effettivo vantaggio diagnostico per il paziente;
  • generalmente i benefici di un’indagine radiologica superano i rischi;
  • il livello di rischio è giustificato solo quando il paziente riceve un beneficio in salute dalla dose più bassa possibile (ALARA: A Low As Reasonably Achievable) (si veda Am J Orthod Dentofacial Orthop, 2008, n. 134, pp. 597-598).

In un articolo di revisione della letteratura dell’Università di Oporto, Portogallo, pubblicato su Progress in Orthodontics nel 2013, intitolato “Validity of 2D lateral cephalometry in orthodontics: a systematic review”, si conclude: «La letteratura esistente suggerisce che la cefalometria laterale del cranio è stata utilizzata ad oggi senza adeguata evidenza scientifica, sia relativamente al fatto che sia fondamentale per la diagnosi e l’efficacia terapeutica, sia che non lo sia» (Ana R. Durão, Pisha Pittayapat, Maria Ivete B. Rockenbach, Raphael Olszewski, Suk Ng, Afonso P. Ferreira and Reinhilde Jacobs, Progress in Orthodontics, 2013, vol. 14, n. 31, pp. 3-11).
Questo lavoro, come molti altri, si conclude dicendo che sono necessari studi ulteriori su un campione più ampio per fare chiarezza. Ma il messaggio è piuttosto chiaro.
La cefalometria da sempre è utilizzata in ortodonzia per fare diagnosi e addestrare generazioni di ortodontisti a comprendere il significato di angoli e piani, e non fa altro che tradurre in numeri quello che la morfologia delle ossa mascellari e del cranio del paziente ci vuole comunicare. Certo, con lo studio e l’esperienza, condizioni imprescindibili, probabilmente gli ortodontisti tra noi più saggi non hanno bisogno dei numeri.
E se potessimo effettuare la cefalometria senza radiazioni per il paziente?
Nella sua tesi di specializzazione in ortognatodonzia presso l’Università dell’Insubria, di prossima pubblicazione, il dott. Piero Antonio Zecca, ha dimostrato la sovrapponibilità tra i dati ottenuti da una cefalometria tradizionale con un’analisi cefalometrica cutanea a partire da una scansione 3D del viso del paziente, quindi senza ulteriore radioesposizione.
Cosa significa questo?
È il momento in cui una nuova tecnologia origina il cambiamento di una determinata attività e ne modifica completamente il modello precedente.
La disruption digitale sta profondamente cambiando il nostro modo di essere ortodontisti. Clayton Christensen, il professore di Harvard che ha coniato questo termine, ha dimostrato come ciò sia successo più volte nella storia, ma mentre una volta era un’operazione dai costi molto alti e dai tempi di realizzazione molto lunghi, oggi, con l’avvento del digitale, il processo ha subito una forte accelerazione. Disruption e innovazione sono legate a doppio filo: la disruption è l’unica via per innovare? Secondo il prof. Christensen è la migliore, perché quando si innova attraverso strumenti digitali lo si fa in modo più efficiente.

Dal 3D al 4D
A partire dalla scansione digitale delle arcate dentarie mediante uno scanner intraorale, con l’ottenimento di modelli virtuali possono essere analizzate e misurate nel dettaglio le caratteristiche occlusali del paziente, in un modo fino a poco tempo fa neanche immaginabile, senza passare da un modello fisico. Su questi modelli può essere effettuato un setup digitale dei movimenti ortodontici da ottenere per simulare e definire gli obiettivi di terapia, nonché per progettare l’apparecchiatura necessaria e/o le sue modalità di applicazione. In corso di trattamento, mediante successive scansioni digitali delle arcate dentarie, è possibile ricavare nuovi modelli virtuali da sovrapporre a quelli iniziali per monitorare l’andamento della terapia.
In casi più complessi, dove la diagnosi morfologica è fondamentale, mediante la sovrapposizione tra i modelli digitali e la ricostruzione 3D dei mascellari, ottenuta da una CBCT, da cui si ricava anche l’anatomia radicolare, attraverso appositi software è possibile effettuare un setup che consideri i reali limiti anatomici del movimento radicolare (set up bone safe) (Figg. 9, 10). L’ottenimento del modello virtuale del dente del paziente è costituito dalla corona ricavata dalla scansione intraorale e dalla radice ricavata dalla Cone Beam. In questo modo può essere definita anche la posizione radicolare all’interno delle ossa mascellari durante o al termine del trattamento, senza effettuare un ulteriore esame radiografico, ma soltanto una scansione intraorale. È quindi, possibile monitorare il reale andamento del trattamento ortodontico, nel rispetto dei limiti anatomici del paziente, valutare l’aderenza al setup effettuato ed eventualmente rimodularlo. Il follow-up dei nostri casi non è più soltanto relegato ai controlli a distanza dalla fine del trattamento, ma diventa un concetto dinamico, dove il tempo non ci dice solo quello che desideriamo possa accadere con la nostra terapia se iniziamo nel momento giusto (il timing), ma cosa sta accadendo oggi, ora, al di là di quello che vedono i nostri occhi e con il massimo rispetto per il paziente.
L’ortodonzia 4D definisce e comprende una quarta dimensione diagnostica, ovvero il tempo che scorre e quello che ci può comunicare.

 

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L'articolo è stato pubblicato sul numero 2 di Otrho Tribune Italy 2014.

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