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Un rebus l’introduzione al passaggio generazionale negli studi professionali

C. Devecchi

C. Devecchi

lun. 8 luglio 2013

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Quanto valgono i passaggi generazionali in Italia? Secondo i dati AIPB1, su 431 miliardi di capitale gestito o amministrato, il 39% dei clienti è formato da una platea di professionisti o imprenditori. Poiché il CERIF2 dice che l’80% degli studi professionali o delle aziende italiane sono “family business”, è facile derivare che abbiamo, per difetto, una ricchezza di circa 135 miliardi di Euro sul “piatto” del passaggio generazionale.

Su questa importante piattaforma agiscono i ricercatori di CERIF nell’aiutare a vario titolo, come vedremo, e nel traghettare il patrimonio familiare e quello aziendale da una generazione alla successiva. Sempre secondo CERIF, i passaggi generazionali non riusciti sono pari al 10% all’anno, con una “distruzione” di ricchezza di oltre 13 miliardi di Euro. Ciò giustifica ampiamente l’attenzione su questa complessa operazione poiché, come dice Stefano Preda3, «il passaggio generazionale è giudicato anche dagli operatori finanziari, un forte fattore di rischio, legato all’età elevata dell’imprenditore e/o del professionista e all’assenza di successori affidabili, che impone l’adozione di specifiche garanzie, spesso di carattere personale. Oltre l’80% degli imprenditori considera il passaggio generazionale un problema molto difficile da gestire o addirittura impossibile, potenzialmente amplificato dalla necessità di liquidare parte degli eredi, con la separazione finanziaria e patrimoniale dell’azienda. È anche critico il ruolo e lo stile dell’imprenditore, che tende a ritenere le fortune dell’azienda necessariamente legate ai suoi criteri di gestione, da perpetuare attraverso i suoi figli». Quanto di vero ci sia in questa affermazione non è dato sapere; certo è che anche nelle professioni, oltre che in politica, in università e nell’industria, esiste (continuerà a esistere?) una deriva gerontocratica4. Il rapporto citato puntualizza che (anche) in campo medico vi sono fattori che frenano l’introduzione del giovane. Quindi, nel passaggio generazionale, favoritismi e raccomandazioni, concorsi poco trasparenti, basso numero di giovani medici con non più di 35 anni iscritti all’Albo (2007) pari al 12% del totale, scuole di specializzazione quasi sempre con posti disponibili inferiori rispetto alla domanda ecc.
Di fronte a un “passaggio delle consegne” è utile distinguere alcune tipologie. Un primo caso riguarda il passaggio di padre in figlio5, in cui elementi cruciali sono: l’incapacità degli eredi, il rischio collegato alla perdita del fondatore, la commistione del patrimonio familiare con l’aziendale, l’evoluzione dell’organizzazione, la ridefinizione della leadership, il rinnovamento della formula imprenditoriale. Un secondo caso è dato da studi costituiti da due o più associati ove, se escludiamo il classico passaggio generazionale da padre in figlio (che ricade nella prima fattispecie), col passare del tempo e l’avanzare dell’età, il pensiero del professionista si volge inevitabilmente al valore di realizzo dello studio, al possibile ritiro dall’attività e dalla vita lavorativa in generale. Fondamentale allora domandarsi: è possibile pianificare (e in che modo) la successione per un ritiro programmato dall’attività dello studio? Quali le strategie adottare in tale contesto? Come affrontare la valutazione dello studio e la definizione di un prezzo per la cessione o optare per una fusione o un’acquisizione dall’interno o dall’esterno?
Il passaggio generazionale è esente da rischi? Pare di no; una recente indagine6 ha definito una tassonomia dei fattori di rischio che possono complicare/impedire la successione in una family business (studio professionale o impresa), articolata in 5 categorie:

1. fattori individuali, ossia legati ai due principali individui coinvolti nella successione, il predecessore e il successore (es. divorzio, matrimonio o nascita di un nuovo erede del predecessore);

2. relazionali, ossia legati alle relazioni tra i membri della famiglia o tra essi e i soggetti esterni (es. conflitti nella famiglia circa le posizioni che i diversi membri dovranno occupare);

3. finanziari, derivanti dalla limitata disponibilità di risorse finanziarie interne e dai costi opportunità legati al reperimento di finanziamenti esterni (es. mancato reperimento di risorse finanziarie per liquidare gli eredi uscenti);

4. fattori di contesto, o cambiamenti nel contesto economico, in cui il family business opera (es. perdita di clienti chiave per la successione);

5. di processo, legati a dinamiche del processo di successione che ne ostacolano il successo (es. definizione non chiara dei ruoli del predecessore e successore potenziale).

L’approccio multidisciplinare alla soluzione del problema pare, in conclusione, quello migliore. Ad esempio, da un punto di vista giuridico deve essere sempre presente la garanzia degli interessi delle parti senza pregiudizi per i terzi. Anche la stesura di un contratto di cessione è quasi sempre utile e necessario. Da non dimenticare, infine, l’individuazione dei professionisti interessati all’aggregazione/passaggio generazionale più la valutazione del loro pacchetto clienti e la redazione dei relativi contratti di associazione.
Non è da trascurare, da parte degli interessati, la conoscenza (non diciamo la competenza) di quanto la riforma del diritto societario del 2004 ha previsto sulla forte autonomia riconosciuta alle Srl e conseguente possibilità di prevedere una declinazione di ruoli e di competenze, tali da soddisfare le diverse volontà dei soci-eredi, distinguendo ad esempio tra erede che voglia essere socio-gestore e quello che intenda rimanere mero proprietario7. La riforma si pone tuttavia in modo ambiguo rispetto a uno dei momenti più critici della vita di queste imprese/studi professionali: una successione generazionale difficoltosa che porti al recesso (uscita, abbandono) di uno più soci-erede.
Altro esempio: il passaggio generazionale non può essere affrontato soltanto con un approccio economico-razionale coinvolgendo aspetti psicologici e affettivo-emozionali; chi si appresta a “cedere le redini”, infatti, non è solo un imprenditore/professionista, ma una
persona, in cui si sovrappongono logica razionale ed emotivo-affettiva. Ecco perché, a volte, si confondono i fronti cosiddetti “tecnici” (es. gli aspetti fiscali, societari e patrimoniali) con ciò che è veramente vitale e strategico in un passaggio generazionale di successo.
Attorno al passaggio generazionale ruotano elementi che in qualche modo lo condizionano e si rigenerano nei suoi elementi di criticità: la permanenza della crisi italiana; la comparsa di concorrenti stranieri abilitati; la fuga di pazienti effettivi e potenziali in paesi confinanti; il proliferare delle “catene di cliniche dentistiche e centri dentali”; la rinuncia o il posticipo di cure dentistiche o di cure dentali ecc. Occorrono la massima attenzione al problema e una “giusta” collocazione tra le priorità strategiche.

Note
1. Associazione italiana Private Banking, www.aipb.it.
2. Centro di ricerca sulle imprese di famiglia, www.cerif.it.
3. Cfr. 26° Convegno di studio “Adolfo Beria di Argentine”, L’impresa familiare: modelli e prospettive, Courmayeur (AO) 30 settembre-1 ottobre 2011: L’impresa familiare: il finanziamento tra banca, private equity e quotazione in borsa.
4. Cfr. “URG! Urge ricambio generazionale”, primo rapporto su quanto e come il nostro Paese si rinnova, a cura di Marta Simoni, marzo 2009, Rubbettino Editore.
5. Per un’analisi approfondita di queste criticità, si veda “Problemi, criticità e prospettive dell’impresa di famiglia”, Volume I, Claudio Devecchi, Vita & Pensiero, 2007, Milano.
6. Cfr. “Passaggio generazionale: rischi, problematiche e best practice”, A. De Massis e E. Pizzurno, in “Economia e Mercato”, gennaio 2012.
7. Cfr. “Di padre in figlio, un passaggio problematico”, di Luisa Sciandra, 2005, www.lavoce.info.

L'articolo è stato pubblicato sul numero 7+8 di Dental Tribune Italy 2013.

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