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L’atto di destinazione? È imposto ai beni per sottrarli ai terzi soddisfacendo interessi di determinati beneficiari

Alfredo Piccaluga

Alfredo Piccaluga

lun. 27 maggio 2013

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Tutelare il patrimonio familiare, preservarlo nell’interesse dei figli, ripararlo dai creditori sono esigenze sentite che verosimilmente, in almeno un’occasione, fanno riflettere.

Nel tentativo di discernere nettamente gli investimenti destinati alla professione dal patrimonio personale e/o familiare gestito, i professionisti si sono cimentati nelle sperimentazioni più improbabili e ardite. Molti studi sono organizzati in forma individuale ma all’interno operano professionisti qualificati, collaboratori esterni, con la presumibile finalità di focalizzare la responsabilità su un unico soggetto, in deroga a una norma imperativa che responsabilizza tanto chi riceve il mandato professionale quanto chi lo porta a compimento.
Altre realtà mediche e odontoiatriche, soprattutto se d’importazione, sfruttano il franchising (strumento tipicamente commerciale) e/o si costituiscono in impresa sperando di godere di vantaggi (fallibilità, spersonalizzazione delle responsabilità, autonomia patrimoniale perfetta ecc.) riservati a società e storicamente negati al mondo professionale. Proliferano poi, come non mai, assicurazioni civili e professionali nella flebile speranza che possano offrire una garanzia universale.
In realtà la natura personalistica della professione, le franchigie assicurative e talvolta la scarsa trasparenza contrattuale di alcune compagnie assicurative, fanno sì che nessun professionista possa operare nella consapevolezza di aver tutelato da ogni mira esterna il proprio patrimonio. Si tratta semplicemente di invertire l’ottica del problema. Partendo da un’analisi della propria situazione patrimoniale, anziché dei propri investimenti lavorativi, il professionista dovrebbe stabilire ex ante cosa e in che misura si debba destinare al sostentamento familiare o, un domani, a permanere nell’asse ereditario. Più in generale, anziché limitarsi a ricercare sicurezze nel mondo professionale o negli affari, è bene concentrarsi sui beni che si vuole “segregare” rispetto alla restante parte del patrimonio per realizzare interessi meritevoli di tutela.
In quest’ottica, oltre al trust patrimoniale e al fondo patrimoniale, esiste un terzo e misconosciuto strumento adatto a tale finalità: il c.d. “vincolo di destinazione”. Strumento per lo più ancora inesplorato, è stato introdotto nel 2006 da una norma zoppicante e lacunosa (art. 2465-ter del C.C.), che, trattando di trascrizione e pubblicità degli atti, ha collateralmente introdotto il concetto di atto di destinazione. Con esso, un soggetto definito conferente, può sottrarre uno o più «beni immobili o beni mobili iscritti nei pubblici registri» e appartenenti al suo patrimonio alle mire di terzi, imprimendogli un vincolo di destinazione per il soddisfacimento di interessi meritevoli di tutela e a favore di beneficiari determinati. La conseguenza dell’apposizione del vincolo è che i beni destinati possono essere oggetto di esecuzione forzata per i soli debiti contratti per tale scopo.
In estrema sintesi, con quest’istituto giuridico si può costituire un vincolo di destinazione su uno o più beni che, pur restando nella titolarità giuridica del “conferente”, assumono la connotazione di massa patrimoniale “distinta” rispetto alla restante parte del patrimonio, in virtù del vincolo di destinazione impresso. Questa fattispecie negoziale, di recente promulgazione, è in parte assimilabile ad altri istituti giuridici presenti nell’ordinamento; nell’ambito del diritto di famiglia, al trust o al fondo patrimoniale (art. 167 e seguenti C.C.), oppure, in ambito societario, ai patrimoni destinati a specifici affari (art. 2447-bis C.C.).
In questo caso però non sono previste particolari regole relative alla gestione della massa patrimoniale vincolata e non sono definiti chiari limiti in merito alle finalità cui è destinata, il che rende questo strumento innovativo quanto atipico. La normativa in tema di vincoli di destinazione non impone la partecipazione all’atto istitutivo del vincolo di due o più soggetti distinti, a differenza del trust o fondo patrimoniale, in quanto in questo caso è ritenuta sufficiente la presenza del soggetto disponente.
Quando adottare questo strumento? Indubbiamente per la realizzazione degli interessi dei propri figli minori, assicurando loro un mantenimento fino all’età adulta e indipendentemente da ripercussioni pregiudizievoli riguardanti il patrimonio. Ma attinenti sono anche le tutele delle famiglie di fatto o la destinazione alla cura di un soggetto disabile, ipotesi espressamente suggerita dalla norma.
Pur applicabile con un mero atto unilaterale, anche questo strumento non è scevro di limitazioni. È infatti applicabile solo per vincolare beni immobili o mobili registrati e, per espressa disposizione legislativa, il vincolo ex art. 2645-ter del Codice civile non può superare i novant’anni o la durata di vita della persona fisica beneficiaria. Inoltre, il vincolo si può costituire solo con atto pubblico, non essendo egualmente accettabili la scrittura privata autenticata o accertata giudizialmente.
Per quanto attiene i problemi fiscali, l’Agenzia delle entrate si è espressa in occasione di “Telefisco 2007”, precisando che le imposte di successione e donazione all’epoca appena reintrodotte non sono applicabili alla costituzione di vincoli di destinazione che trovino fondamento in previsioni di legge o in provvedimenti amministrativi. E neppure sono applicabili nella costituzione di vincoli di destinazione su beni che permangono nella titolarità del disponente. Lo strumento soggiace piuttosto all’imposta di registro in misura fissa, prevista per gli atti privi di contenuto patrimoniale e, qualora si attui la trascrizione di un vincolo di destinazione costituito su terreni, fabbricati o altri beni immobili, anche a quella ipotecaria, ma sempre in misura fissa.

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