In vista dell’imminente regolamentazione della responsabilità professionale (cosiddetta Legge Gelli) Dental Tribune ha raccolto alcune riflessioni in materia da parte di Gabriella Ceretti, professoressa a contratto della Scuola di specializzazione in Ortognatodonzia dell’Università di Padova.
Pochi argomenti come la responsabilità professionale sono in grado di suscitare nell’odontoiatra sentimenti così contrastanti. Curiosità, e quindi interesse, per un tema che la maggior parte dei professionisti conosce poco, ma del quale allo stesso tempo è attratto, avendo la consapevolezza che è strettamente connesso con l’attività quotidiana. Inquietudine e, di conseguenza, rifiuto, in quanto si identifica con uno dei momenti più sgradevoli e penosi della vita professionale. La statistica dice che, mediamente, nel corso di un’intera vita professionale ogni odontoiatra si troverà a dover affrontare almeno due o tre contenziosi.
Purtroppo, però, è ormai evidente a tutti che, oltre a questi eventi, ciò che è profondamente cambiato è la “litigiosità” di base e quindi il rapporto che si instaura con il paziente e le sue aspettative. La consapevolezza di questa mutata situazione induce l’odontoiatra a comunicare in modo molto più accorto e attento di un tempo, ottemperando con attenzione a quelli che sono i principi del cosiddetto “consenso informato” e dell’autodeterminazione del paziente, anche minorenne, nei confronti della scelta terapeutica.
Se oggi esaminiamo il nostro approccio e lo rapportiamo a quello che avevamo nel passato non possiamo che ritrovarci, tutti e in particolar modo chi giovanissimo non è più, molto diversi. Il risultato di questo cambiamento ha portato a un grande aumento del rispetto per il paziente che si riverbera nel diritto a conoscere in modo compiuto la sua situazione e a scegliere fra i diversi tipi di terapia, sia fra quelli che siamo in grado di offrirgli ma anche eventuali altri tipi di trattamento che noi stessi non siamo in grado di garantirgli al meglio.
Ciò, di fatto, consente al paziente di scegliere consapevolmente oltre che le caratteristiche e il profilo economico della prestazione anche come, dove e da chi farsi curare. Questo, di fatto, ha spostato la centralità dal medico al paziente e, innegabilmente, non può non essere considerato un grande progresso sotto il profilo etico.
A fronte di questo cambiamento sta mutando anche l’atteggiamento della magistratura nella valutazione dell’operato del professionista. Se è noto che sotto il profilo penalistico la responsabilità del medico è stata alleggerita, prima dal Decreto Balduzzi e in seguito con la Legge Gelli, attualmente in attesa di approvazione al Senato, contemporaneamente però in ambito civilistico la posizione del medico si è aggravata per un’interpretazione sempre più strettamente “contrattualistica” del rapporto medico-paziente.
All’osservazione di chi si occupa di responsabilità professionale balza però all’occhio che forse, se di “contratto” si parla, a fronte di una molteplicità di obblighi e balzelli che certamente “guidano”, ma a volte impastoiano il medico, appesantendo e complicando la sua attività clinica, ben poco è stato definito di quello che è poi realmente l’impegno che, nel “contratto”, formalmente si assume il paziente e che, se non viene rispettato, potrebbe farlo decadere. Infatti, a fronte di elencazioni di rischi, alternative terapeutiche, costi e previsioni di tempi, disagi e possibili complicanze, a volte francamente difficilmente prevedibili, molto poco si scrive nei nostri consensi di quello che “anche” il nostro paziente si impegna a fare e a rispettare per un corretto andamento delle cure, sia sotto il profilo clinico sia sotto quello economico, e ancor di più una volta che la fase di cura attiva è terminata.
Forse dunque è giunto il momento di rivedere ancora una volta la maniera di comunicare con i pazienti e definire in modo circostanziato il loro impegno – anche acquisendo formalmente il loro consenso – a ottemperare con precisione a quanto noi chiediamo per poter dare quella “garanzia di risultato” che, purtroppo, sempre più viene richiesta. Ciò ovviamente nella consapevolezza che solo una chiara e consapevole collaborazione fra le parti può portare al miglior risultato clinico ottenibile, nell’interesse finale del paziente e della serenità degli operatori.
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