Da una intuizione di Einstein, nel 1960 Maiman realizzò una macchina in grado di generare un flusso di radiazioni elettromagnetiche caratterizzate da coerenza, collimazione e monocromaticità; questa è la data di nascita del laser.
Molti sono i campi di applicazione di questo particolare tipo di energia e, viste le caratteristiche di interazione che essa possiede nei riguardi dei tessuti biologici, la medicina ha fatto proprio, ormai da decenni, quello che è divenuto mezzo di cura indispensabile: il laser. Anche in odontoiatria l’uso del laser si è diffuso sempre maggiormente, dapprima come ausilio alle tecniche convenzionali, poi come unico strumento di cura. Il ventaglio delle lunghezze d’onda adoperato in medicina si estende dall’ultravioletto all’infrarosso, in odontoiatria le lunghezze d’onda usate vanno invece dal visibile dei 480 nm del laser ad argon fino ai 10.600 nm del laser a CO2.
In questo ventaglio si possono individuare i laser più adoperati in questa branca che sono rappresentati dal laser a diodi con lunghezze d’onda tra gli 800 e i 900 nm, dal laser a neodimio di 1064 nm e dal laser a erbio di 2940 nm. Accanto a questi, in continuo aumento, è l’uso di laser a diodi localizzati nel visibile 660-680 nm utili nella biostimolazione e del laser KTP, una fonte di 532 nm basata su un laser a neodimio la cui lunghezza d’onda vien dimezzata interponendo un cristallo di fosfato di potassio e titanio.
Ogni lunghezza d’onda ha proprie caratteristiche che dipendono dalle proprietà ottiche dei tessuti. Molecole, enzimi corpuscoli cellulari hanno caratteristiche diverse di assorbimento delle diverse lunghezze d’onda, ciò spiega la diversa azione di ogni singola lunghezza d’onda sui tessuti trattati. Su queste interazioni si basa, come si vedrà meglio in seguito, la scelta del laser di elezione per il trattamento da eseguire.
La luce coerente è quindi ormai entrata a pieno titolo in tutte le branche della moderna odontoiatria, al laser è riservato il ruolo di assistenza a diverse discipline con funzione di integrazione delle metodiche convenzionali o di mezzo unico attraverso il quale portare a termine l’intero intervento terapeutico. In chirurgia, in particolare, varie lunghezze d’onda permettono di effettuare interventi più delicati e risolutori in tempi più brevi rispetto a quelli necessari con le metodiche tradizionali. Anche l’implantologia, per scopi e necessità diverse, si avvale dell’ausilio delle sorgenti laser.
Scopi
La moderna implantologia si orienta sempre più verso metodiche mininvasive con lo scopo non solo di risparmiare tessuto biologico ma soprattutto per ottenere guarigioni più rapide, caratterizzate da decorsi post-operatori privi di sequele tissutali che potrebbero compromettere l’ottimale guarigione e la conseguente perfetta osteointegrazione. In quest’ottica si colloca l’impiego del laser in questa disciplina. Possiamo distinguere diversi campi d’azione della luce coerente in implantologia e di seguito vedremo come essa possa essere inquadrata e utilizzata nelle diverse situazioni cliniche.
Utilizzo del laser nelle fasi pre-chirurgiche
Le fasi pre-chirurgiche in implantologia sono rappresentate da quelle situazioni nelle quali il sito implantare necessita di un trattamento atto a renderlo compatibile con l’introduzione dell’impianto e con la successiva fase dell’osteointegrazione. Un esempio classico ed esemplificativo di questa azione è rappresentato dal trattamento degli alveoli post-estrattivi. Indipendentemente dal fatto che si voglia procedere a un intervento di inserzione immediata o differita dell’impianto, il trattamento dell’alveolo consente di ottenere un letto implantare più idoneo rispetto ad analoghi siti non trattati. I vantaggi sono rappresentati dalla possibilità di avere una completa disinfezione del sito che, tranne nei casi di frattura dentale, è sempre sede di infezioni estese, tanto da richiedere l’avulsione dell’elemento dentario. L’azione del laser permetterà poi di ottenere l’allontanamento pressoché totale dei tessuti infiammatori presenti nell’alveolo e, contemporaneamente, consentirà il totale rispetto della componete ossea. Oltre alla disinfezione e alla toilette chirurgica, con la luce coerente si potranno metter in atto quei meccanismi di biostimolazione che sono alla base della veloce guarigione del sito in esame. Anche le azioni di rimodellamento dei tessuti molli che possono essere rappresentate dalla necessità di effettuare delle frenulotomie o dei riposizionamenti si avvantaggiano delle metodologie laser-assistite restituendo siti trattabili in tempi molto più brevi rispetto a quelle sedi di intervento con metodi convenzionali. Ovviamente le azioni descritte sono legate alle lunghezze d’onda adoperate in quanto ogni singola lunghezza d’onda avrà un proprio fotoaccettore in grado di determinare le azioni specifiche sul tessuto trattato. La lunghezza d’onda di 2940 nm, corrispondente alle emissioni dei laser a erbio, è assorbita dall’acqua presente nei tessuti. Questa lunghezza d’onda è da preferirsi per il trattamento dei siti post-estrattivi, ciò che la rende lunghezza d’onda di elezione è l’assenza di incremento termico in un sito in cui il trattamento, per essere esaustivo, deve essere prolungato per ottenere la completa asportazione del tessuto infiammatorio presente insieme alla completa disinfezione, considerando che tale sito è sede di colonizzazione spesso operata da diverse specie batteriche tutte altamente virulente. L’avere a disposizione un laser che permetta di lavorare senza provocare pericolosi rialzi termici a carico dell’osso, che notoriamente non tollera incrementi di oltre 6-7 °C rende la fonte a erbio quella più adatta a tale scopo. Per ottenere le azioni ricercate vengono, di solito, impiegate delle potenze relativamente basse, dell’ordine di 1-1,5W (100-150 mj 10 Hz). Nell’impiego del laser per le procedure chirurgiche di rimodellamento dei tessuti si può invece ricorrere a lunghezze d’onda posizionate nel più vicino infrarosso come i 1064 nm del laser ND:YAG o gli 810-830 nm dei laser a diodi. Con queste lunghezze d’onda si otterranno dei campi operatori privi di sanguinamento e si potranno portare a termine gli interventi in tempi più brevi. Anche per queste lunghezze d’onda si adopereranno potenze relativamente basse dell’ordine di 1-1,5 W per il laser a neodimio e di 1,5-2,5 W per il laser a diodi. L’azione biostimolante della luce coerente è propria di tutte le lunghezze d’onda dei laser ma la maggior parte dei processi biochimici che stanno alla base della riparazione tissutale risponde a lunghezze d’onda comprese tra i 660 e i 904 nm e proprio in questo range e con potenze che vanno da 1 a 4 Joule si collocano le macchine più adatte a questo scopo. L’utilizzo di queste fonti con le potenze ricordate renderà molto più veloci le guarigioni tissutali abbreviando i tempi clinici di attesa.
Il laser nella chirurgia implantare
Come già accennato la chirurgia implantare è sempre più spinta verso metodiche meno invasive e anche al di fuori dell’argomento che stiamo trattando ci rendiamo conto di un simile processo quando notiamo lo sforzo fatto per ottenere, ad esempio attraverso l’uso di macchine a ultrasuoni, mezzi chirurgici sempre più delicati. Il fondamento di tale ricerca sta nel fatto che più delicata è la chirurgia più garanzie di successo si avranno oltre, ovviamente, alla migliore qualità percepita dal paziente. L’apertura del lembo può essere effettuata con l’assistenza laser e in questo caso l’uso di laser collocati nel vicino infrarosso permette una chirurgia che lascia “pulito” il campo operatorio. L’orientamento comune è però quello di adoperare la lama a freddo per questo intervento. La preparazione dell’alveolo chirurgico, sebbene sia stata proposta da alcuni autori, ancora non può considerarsi come una metodica da utilizzare correntemente. Concettualmente essa è possibile adoperando un laser a erbio e anzi con tale mezzo si otterrebbero delle osteotomie delicate senza alcuna compromissione dell’osso circostante non sottoposto al trauma degli strumenti rotanti. Ciò che impedisce tale tecnica è oggi rappresentato dalla mancanza di inserti “calibrati” per osteotomie di precisione.
Il laser nella chirurgia post-implantare
La chirurgia post-implantare è rappresentata dalla seconda fase chirurgica degli impianti bifasici. In questo campo l’uso del laser ha soppiantato l’uso delle metodiche convenzionali. La scopertura dell’impianto con l’assistenza laser permette di ottenere il rispetto totale dei tessuti e di conseguenza, nella maggior parte dei casi, consente una presa d’impronta immediata sia per la costruzione di protesi provvisorie necessarie per la modellazione dei tessuti molli, sia, quando tale fase non è necessaria, per la realizzazione delle protesi definitive. Una volta individuata la posizione dell’impianto da scappucciare tramite l’uso di una mascherina guida o con metodi diversi, si inizia il trattamento di scopertura partendo dal centro della vite tappo ed estendendosi verso la periferia con movimenti concentrici e centrifughi. La realizzazione di tale intervento richiede pochi minuti e può essere fatta in assenza di copertura anestetica o con una notevole riduzione delle dosi del farmaco. In teoria, le lunghezza d’onda preferibili sono quelle localizzate nel vicino infrarosso dei laser a diodi di 810 nm, ma l’uso del laser a erbio non è da sottovalutare in quanto la lunghezza d’onda di 2940 nm permette di ottenere un intervento privo di rialzi termici tissutali e con poco sanguinamento tarando in modo opportuno la macchina (150 mj 6 Hz). Le potenze adoperate sono molto basse dell’ordine del watt sia per il laser a diodi sia per quello a erbio.
Il laser nella fase di mantenimento e nel trattamento delle complicanze
La fase di mantenimento dura per tutta la vita clinica del complesso protesi-impianto, essa si avvale delle comuni tecniche di igiene professionale che possono essere integrate da sedute di disinfezione dello pseudo solco perimplantare.
Lunghezza d’onda ideale per tale attività è quella dei laser a diodi che lavorano tra gli 800 e i 900 nm. Le potenze da adoperare sono di circa 1 W in cw con un movimento continuo della fibra da 200 μ a livello del colletto implantare e le sedute possono essere effettuate con cadenza semestrale. Tale protocollo ha lo scopo di scongiurare, per quanto possibile, l’instaurarsi di patologie dei tessuti molli o duri perimplantari. Nel caso in cui, invece, insorgano la mucosite o la perimplantite il laser diventa lo strumento di prima scelta nel trattamento di queste patologie. Le mucositi (infiammazione su base infettiva) dei tessuti molli perimplantari rispondono velocemente al trattamento laser con una restituito ad integrum pressoché totale dei tessuti interessati alla patologia. I laser utilizzabili sono sia quelli localizzati nel vicino infrarosso (laser a diodi) adoperati con potenze dell’ordine di 1,5 W in cw con movimenti continui, sia il laser a erbio utilizzato con potenze all’incirca simili (150 mj 6 Hz) e sotto spray di acqua. Entrambe queste lunghezze d’onda hanno una spiccata azione antibatterica che si manifesta effettuando cinque cicli di applicazione di 10 secondi e ripetute in due o tre sedute successive a intervalli di 5 giorni. La perimplantite è una condizione molto più grave in cui è compromessa l’interfaccia osso-impianto e, di conseguenza, l’osteointegrazione stessa. La lesione, progredita in profondità, necessita di un trattamento molto più attento e delicato volto a risolvere la causa della malattia (infettiva) e a proteggere l’attacco osso-impianto ancora esistente. La lunghezza d’onda specifica per effettuare tale trattamento è senz’altro quella dei 2940 nm dei laser a erbio e questo per molteplici motivi. Innanzi tutto la completa assenza di incremento termico dell’area trattata. Come già accennato il tessuto osseo mal sopporta aumenti di temperatura oltre i 6-7 °C, l’uso di laser a erbio il cui fotoaccettore è rappresentato dalle molecole di acqua, permette una azione limitata in profondità in quanto l’energia emessa viene ad essere completamente assorbita dagli strati cellulari su cui per primi impatta il raggio laser. Limitandosi, in tal modo, il fenomeno della trasmissione non si arrecano danni da ipertermia ai tessuti profondi. Un laser la cui azione comporti un incremento termico finirebbe con il danneggiare le aree di contatto osso-impianto ancora integre e localizzate nelle immediate vicinanze del punto di applicazione. Bisogna tenere poi presente la possibilità che l’impianto stesso possa comportarsi da conduttore termico, vista la sua struttura metallica, diffondendo l’incremento termico in profondità. L’uso di un laser a neodimio nei trattamenti delle perimplantiti potrebbe provocare, qualora il fascio venisse indirizzato verso la superficie implantare, danni alla stessa in quanto tale lunghezza d’onda ha la capacità, al contrario dei 2940 nm del laser a erbio, di interagire con il titanio del corpo implantare. L’uso, anche diretto, del laser a erbio sulla superficie dell’impianto e anche con potenze ben più elevate rispetto a quelle utilizzate nella decontaminazione della periplantite, non arreca alcuna alterazione alla superficie dell’impianto.
Il laser da biostimolazione: nuove applicazioni
Il processo di osteo-integrazione può essere considerato come un complesso processo di guarigione sia dei tessuti duri che di quelli molli posti a contatto con l’impianto. L’azione dei laser nei processi di guarigione dei tessuti è ampiamente studiata e applicata nella clinica. Opportuni dosaggi consentono nella fase di osteointegrazione di ottenere un’accelerazione di quei processi di neoformazione ossea che sono alla base del successo della terapia implantare.
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Conclusioni
L’uso del laser sia come complemento delle metodiche classiche che come strumenti di elezioni nelle varie fasi della terapia e del mantenimento delle protesi su impianti è ormai consolidato nei protocolli clinici odierni. I vantaggi illustrati fanno comprendere come l’implantologia laser-assitita possa contare su trattamenti meno invasivi e più predicibili nei risultati non solo delle fasi terapeutiche prive di inconvenienti, ma anche in quei casi clinici in cui perimplantiti o mucositi mettano a rischio il lavoro chirurgico o protesico.
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L'articolo è stato pubblicato su Laser Tribune Italian Edition, maggio 2015.
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