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Cosa succede se si modificano le mansioni (ad esempio, dell'assistente alla poltrona)?

Avv. Adriano Colomban
Adriano Colomban, Studio legale STEFANELLI&STEFANELLI

Adriano Colomban, Studio legale STEFANELLI&STEFANELLI

mer. 27 aprile 2016

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Aspetto particolarmente innovato dalla recente riforma del lavoro cd. (Jobs Act), riguarda la possibilità per il datore di lavoro (il dentista) di modificare unilateralmente le mansioni del proprio dipendente (es. l’assistente alla poltrona). Si tratta del cd. ius variandi. La disciplina del mutamento di mansioni è prevista all'art. 2103 del codice civile, il quale è stato profondamente modificato con inevitabile ripercussione nei rapporti fra datore di lavoro e lavoratori.

Fino ad oggi l'articolo consentiva al datore di lavoro di adibire il lavoratore a mansioni superiori per un massimo di 3 mesi, pena la stabilizzazione del corrispondente livello superiore (cd. mobilità verticale), oppure a mansioni equivalenti alle ultime svolte, con pari retribuzione (cd. mobilità orizzontale). Quel che non poteva fare il datore di lavoro era adibire il proprio dipendente a mansioni inferiori (salvo esigenze straordinarie e per un tempo limitato).

Ove quindi l'imprenditore, in ragione di particolari esigenze aziendali o per motivi di contrazione economica e/o riorganizzazione, avesse deciso di mutare le mansioni di uno o più dipendenti avrebbe potuto (prima della riforma) unicamente valutare l'equivalenza delle “nuove” mansioni affidate, attraverso un giudizio comparativo. La giurisprudenza aveva chiarito che per “equivalenza” occorreva riferirsi al “patrimonio professionale” del lavoratore, ragion per cui le nuove mansioni dovevano avere un “valore professionale” comparabile con quelle precedenti. Il datore di lavoro ben poteva assegnarlo a mansioni equivalenti, purché i tipi di mansione – per provenienza e destinazione – appartenessero al medesimo livello d'inquadramento previsto nel CCNL con la conservazione se non accrescimento del bagaglio esperienziale acquisito dal lavoratore (Cass.Civ.,Lav., n.24293/2008).

Molto facile dunque per il datore di lavoro incappare in contenziosi giudiziali non appena tentava di “spostare” il dipendente, soprattutto se la modifica unilaterale imposta non teneva in debito conto la metodologia comparativa su citata. Sempre attivati dai lavoratori che percepivano “lo spostamento” come un ingiusto demansionamento, i contenziosi imponevano al Giudice un'indagine precisa circa le mansioni previste nell'atto di assunzione rispetto a quelle concretamente svolte, nonché un loro successivo inquadramento con riferimento al corrispondente livello del CCNL d’appartenenza.

L'intervento del Jobs Act ha modificato i tre ambiti principali dello ius variandi al punto che oggi l'equivalenza delle mansioni non deve più tener conto dei compiti effettivamente svolti dal lavoratore o del livello professionale da questi raggiunto cancellando così il divieto d'assegnazione a mansioni inferiori.

Oggi verrebbe permessa l'assegnazione a mansioni riconducibili tanto allo stesso livello quanto a quello immediatamente inferiore, con obbligo ovviamente a tenere invariata la categoria d'inquadramento (operaio, impiegato, quadro). Non vi è più l'obbligo quindi di dover accertare se le nuove mansioni siano aderenti – o meno – alla specifica competenza acquisita dal dipendente. Ovviamente il datore di lavoro potrà procedere al “demansionamento consentito” solo qualora intervenga una modifica (reale) degli assetti organizzativi aziendali, tale da pesare sulla posizione del lavoratore oppure in una delle ipotesi previste dai contratti collettivi.

Per tale motivo dunque, seppur in assenza di una previsione esplicita, pare opportuna – da parte del datore di lavoro – una motivazione precisa e dettagliata del provvedimento modificativo, con indicazione delle ragioni organizzative sottese alla decisione. Al di fuori dei limiti imposti dalla legge si ricadrà ancora in ipotesi di demansionamento illegittimo con obbligo del datore di lavoro di versare la differenza di retribuzione e contributi conteggiati dal momento in cui il dipendente è stato adibito illegittimamente a mansioni inferiori.
A prescindere dalle regole citate circa il demansionamento consentito, la nuova legge riconosce comunque la possibilità alle parti di stipulare accordi individuali (il lavoratore sempre assistito dal sindacato o da un avvocato) di modifica delle mansioni, della categoria legale o del livello di inquadramento se non addirittura della retribuzione (comma 6 nuovo testo art. 2103 c.c.).

Altra novità portata dal Jobs Act riguarda il riordino delle forme di lavoro ad orario modulato e flessibile, in particolare il cd. part-time. Questa tipologia contrattuale può venire incontro anche alle esigenze dei datori di lavoro che, per natura della loro attività o per una particolare contingenza economica, si trovano temporaneamente ad avere flessioni lavorative, con la necessità quindi di poter utilizzare il personale in maniera più elastica. Il lavoro a tempo parziale, come noto, è caratterizzato da un orario inferiore rispetto a quello del tempo pieno.

Prima della recente riforma esisteva la classica tripartizione, ovvero:
1) part-time orizzontale (in cui si lavora tutti i giorni della settimana, ma in ciascun giorno per un minor numero di ore);
2) part-time verticale (in cui si lavora a tempo pieno ma solo in alcuni giorni della settimana e/o solo in alcune settimane al mese e/o solo in alcuni mesi all’anno);
3) part-time misto che permette(va) una modulazione del lavoro a seconda delle vere esigenze aziendali.

Oggi, più che altro nominalmente, tale tripartizione appare superata, in ragione di una esigenza di semplificazione, dando così la possibilità alle parti di stabilire contrattualmente durata, orario e collocazione temporale della prestazione lavorativa a tempo parziale. Ovviamente tale libertà dovrà tenere in debito conto tanto le esigenze aziendali, quanto quelle del lavoratore. Se ad esempio un lavoratore part-time risulta impiegato per 20 ore settimanali, il datore potrebbe scegliere di impiegare il lavoratore, in funzione delle proprie esigenze, per 4 ore giornaliere oppure, diversamente, una volta individuato il monte-ore annuale necessario all'azienda, potrebbe l'imprenditore modulare la prestazione utilizzando il lavoratore per un tempo pieno (40 ore) nei periodi di estrema necessità, per poi ridurre l'orario nei periodi di flessione lavorativa.

Come si diceva la originale tripartizione sembrerebbe eliminata “solo a parole” nel senso che nei fatti le parti, proprio in funzione della libertà che la nuova norma conferisce, potrebbero stabilire forme orizzontali, verticali o miste di esecuzione della prestazione lavorativa. Obiettivo del legislatore sicuramente era di dare da un lato gli strumenti al datore di limitare i costi nei periodi di flessione, mantenendo un rapporto continuativo con il dipendente, dall'altro incentivare il lavoratore il quale potrebbe contare su una continuità lavorativa sapendo di essere coperto da una forma contrattuale stabile e duratura.
 

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