Se esiste un’opera celebre in tutto il mondo, da Pechino a Santiago, da Sidney a Boston, questa è la Pietà Vaticana di Michelangelo. Non tutti sanno, però, che il meraviglioso volto del Cristo, che ha gli occhi socchiusi come se si stesse per svegliare, è ulteriormente addolcito da un leggero sorriso che scopre i denti.
C’è, inoltre, un altro aspetto che fino ad oggi è sfuggito agli studiosi, ovvero il fatto che la posizione dei denti non corrisponde a quella che l’odontoiatria definisce “arcata ortodontica”, giacché caratterizzata dalla presenza di un incisivo centrale. Il difetto è quello che la scienza definisce “mesiodens”, letteralmente “dente mediano”, perché nell’arcata dentaria superiore, a livello dell’articolazione fra le due ossa mascellari, si crea un alveolo in più con cui si articola un dente centrale.
Il fatto era noto anche ai medici contemporanei di Michelangelo, incluso il suo amico Realdo Colombo che, nel suo trattato di Medicina, spiega che chi possiede questo difetto, al di là dei pregiudizi popolari, può considerarsi ugualmente un “nobiluomo”. Va sottolineato che questa particolarità odontoiatrica era vista, da un’antica tradizione iconografica (si pensi ai diavoli dipinti a Firenze, da Giovanni di Buonaiuto, nel Cappellone degli Spagnoli che Michelangelo di certo conosceva), come la caratteristica di figure negative, inquinate dal peccato, come predicava nel 1495 Girolamo Savonarola.
La scoperta, già pubblicata da chi scrive nel 2014 (I denti di Michelangelo. Un caso iconografico, Milano, Medusa), è stata presentata, con le ultime novità della ricerca, dall’autore, al XVIII Convegno Internazionale della Società Italiana di Paradontologia e Impiantologia (SIdP), la più importante Società dentistica della penisola, che si è tenuto a Rimini dal 16 al 18 marzo scorso, nell’ambito della lettura inaugurale.
Quella del giovane Buonarroti (che, quando scolpì il suo capolavoro, aveva 24 anni) non fu una svista. Il suo significato è chiaro e rimanda alla missione salvifica di Cristo che prende su di sé i peccati del mondo. Né si trattò, infatti, di un’invenzione del grande scultore. Esiste un consistente filone iconografico che passa anche per opere importanti, come il Cristo sofferente di Bramantino (1495), oppure quello portacroce di Quentin Matsijs e Matthias Grünewald, dove appare questa particolarità.
Il giovane Michelangelo dovette averne conoscenza pregando davanti al Crocifisso, in legno policromo, scolpito da Don Romualdo da Candeli nella Cappella di Lorenzo il Magnifico in Palazzo Medici Riccardi che, pure, ha il mesiodens. Così, dopo aver realizzato la Pietà Vaticana per la tomba dell’allora cardinale di Francia Jean de Bilhères, il grande artista utilizzò questo elemento, collocandolo, con estrema coerenza, in tutte le figure negative, secondo una gamma estremamente modulata sul tema del male.
Infatti, il mesiodens compare in figure come la celeberrima Sibilla Delfica e il Giona, dove si configura come segno dell’imperfetta condizione spirituale di chi nacque prima della rivelazione di Cristo, secondo il pensiero di Gioacchino da Fiore, che divideva l’Umanità in Humanitas ante Gratiam e post Gratiam. Pure i protagonisti dell’episodio biblico del Serpente di bronzo, affrescato sul pennacchio sud-orientale della Sistina, ossia i peccatori che non vollero guardare il serpente e che moriranno divorati da serpenti, hanno il mesiodens. Nel Giudizio Universale, poi, caratterizza diavolacci e peccatori.
Del resto, Gerolamo Savonarola parlava già del “dente del peccato” e, così, proprio nel Giudizio Universale, compare uno scheletro appena risorto che mostra un inequivocabile quinto incisivo. Quest’immagine implica l’idea che ci sia chi nasce predestinato al male. È un pensiero che allora aveva riscontro nella speculazione di Benedetto da Modena e nella linea teologica del Circolo di Viterbo che mediava fra la posizione dei protestanti e quella dei cattolici a proposito della predestinazione e del valore salvifico delle opere.
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