Come noto il governo è caduto e con esso – in teoria – anche ogni certezza inerente il prosieguo normativo della Legge di Stabilità 2017. In realtà la norma è già stata approvata, ma come di consueto saranno i decreti attuativi e le correzioni postume a dare il reale indirizzo da seguirsi. Ed essi non perverranno dal medesimo esecutivo che ha ispirato, sino alla stesura del testo normativo, la politica economica del paese attraverso misure di finanza pubblica e di politica di bilancio.
Si aggiunga che, a dispetto delle promesse che pervengono da anni e dei politici che si propongono in spergiuri su semplificazioni e toni più concilianti, la norma sembra in realtà proseguire un iter ultradecennale di aggravio dei controlli, dei compiti e dei costi. Con forte disagio di tutte le categorie. Al punto che l’Ordine dei Commercialisti esausto, per la prima volta nella sua ultrasecolare storia, ha proposto il suo primo sciopero nazionale, che in teoria vedrà addirittura l’intera categoria astenersi da ogni lavoro se non verranno apportate incisive modifiche al testo normativo.
Atteso quindi che per avere certezze si dovrà verosimilmente attendere un po’ più del previsto, può essere importante in questa sede analizzare uno degli aspetti della nuova norma: l’IRI, che sta per Imposta sul Reddito Imprenditoriale. A differenza di altri temi più controversi della norma, la sua introduzione sembrava accogliere parzialmente le aspettative del tessuto economico.
Sembrava… A dispetto del nome, si sarebbe dovuta applicare sia al reddito societario d’impresa, soggetto ora all’IRES, che al reddito di lavoro autonomo (ora sottoposto ad IRPEF). Nel progetto normativo originario, la semplificazione consisteva quindi, nell’assimilare sotto un unico trattamento fiscale i redditi d’impresa e quelli di lavoro autonomo. Se l’IRES è un’imposta proporzionale ad aliquota fissa del 27,5%, l’Irpef gravante su professionisti è invece progressiva (ossia più che proporzionale) che per redditi oltre € 75.000 può arrivare fino al 43%.
La differenza non è semplicemente formale. In pratica introducendo questa norma, i redditi prodotti dalle attività produttive (siano ditte, studi professionali, società di persone o società di capitale) sarebbero tassati con un’unica e fissa aliquota, che dovrebbe essere pari al 24%. Perché allora questo spreco di condizionali? Perché come sovente accade, una soluzione appetibile viene però complicata ad arte con uno o più commi decisamente meno ambiti.
I redditi soggetti a IRI, infatti, saranno solamente quelli reinvestiti nella società o nell’attività professionale (attualmente i redditi delle società non distribuiti tra i soci sono tassati con l’imposta proporzionale IRES del 27,5%) mentre tutti i redditi distribuiti ad imprenditori, soci o professionisti saranno assoggettati come di consueto all’IRPEF.
Inoltre per poter accedere alla nuova forma di tassazione, la cui opzione ha una durata quinquennale, bisogna optare contestualmente per il sistema contabile ordinario, il più oneroso ed impegnativo in vigore. Ad oggi obbligatorio solo per le attività di servizi che superano i 400.000 euro di fatturato (700.000 euro per le altre attività).
In due parole: il risparmio fiscale ipoteticamente esiste, ma si troverebbe spesso controbilanciato da un sensibile aggravio delle incombenze e dei relativi costi. In misura quanto meno proporzionale. Un’opzione quindi da valutare solo per le attività più solide e dimensionate, sconsigliabile per le piccole realtà ed assolutamente da ignorare per coloro che già aderiscono alla tassazione separata del regime forfettario.
Interessante quindi per alcuni, ma solo per pochi. Rispetto alle premesse questa IRI ha il sapore, ancora una volta, di “occasione sprecata”.
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