Cosa succederà, ora, dopo la decisione con cui il Consiglio di Stato con la sentenza 167/2016 ha dichiarato prescritto il procedimento avviato dall’AGCM contro la FNOMCeO ed il Codice deontologico? Si potrà fare ancora pubblicità? E, soprattutto, quali saranno i limiti?
Queste sono le domande che mi sono state poste, incessanti, negli ultimi giorni.
Vediamo di fare un po’ di ordine.
- la legge di riferimento, a tutt’oggi vigente, è la 248/2006 la quale stabilisce i due criteri cardine ai quali deve conformarsi la pubblicità: correttezza e trasparenza;
- le si affianca il Codice Deontologico che nella versione del maggio 2014 non richiama più il criterio del “decoro” ma stabilisce comunque che la pubblicità deve essere “prudente, obiettiva, pertinente”. Stabilendo anche il divieto di pubblicità comparativa;
- il provvedimento AGCM 25078/2014 ‒ pur dichiarato formalmente prescritto dal Consiglio di Stato 167/206 ‒ aveva comunque accertato sotto il profilo di fatto che l’interpretazione della pubblicità da parte degli Ordini è tale di limitare la concorrenza, attraverso un “utilizzo strumentale” del procedimento disciplinare;
- il Tar Lazio nella sentenza 4943/2015 aveva altresì stabilito che le norme deontologiche restrittive della disciplina pubblicitaria non potevano essere emanate proprio perché non possono essere stabiliti limiti ulteriori rispetto a quello della legge 248/2006.
Chiarito il quadro, vediamo i criteri e le regole alle quale è opportuno attenersi d’ora in poi. Reputo opportuno in questa sede soffermarsi su alcuni punti cardine.
Il criterio percettivo
Secondo il disposto della legge 248/2006 i due principi sostanziali da rispettare sono trasparenza e correttezza. Il rispetto però deve passare attraverso il criterio percettivo: vale a dire che la pubblicità non va valutata con gli occhi del tecnico o del clinico ma con quelli del paziente.
Ciò che rileva in sostanza è la percezione che il paziente ha del messaggio che riceve: se la percezione rispecchia ciò che avviene nella realtà il messaggio sarà corretto; se viceversa quella che si riceve non coincide con la realtà la pubblicità sarà ingannevole.
Il mio consiglio quindi è sempre quello di sottoporre la pubblicità ad un paziente medio, per valutare qual è la sua percezione del messaggio.
Il criterio delle prove
L’accertamento della ingannevolezza o meno della pubblicità sanitaria spetta agli Ordini professionali (art. 2 legge 248/2006). Nulla dice tuttavia la legge circa le modalità per effettuare il controllo.
Solitamente gli Ordini svolgono una valutazione di natura formale: vale a dire analizzano la pubblicità (es volantino) e, senza indagini di fatto, assumono decisioni sulla sua veridicità o meno, solamente sulla base del messaggio contenuto.
Sul punto è intervenuta la Cassazione Civile 17 gennaio 2014 n. 870 la quale ha invece stabilito che gli Ordini devono dare prova, in concreto, di quali sono gli aspetti di non veridicità e non trasparenza del messaggio. Se quindi non vi è dubbio che l’onere delle prova sia in capo agli Ordini, ciò non toglie che è buona regola mettersi nelle condizioni di dare prova di ciò che si afferma in pubblicità.
Quindi quando si decide un messaggio è opportuno valutare se si può dare prova concreta di quanto si afferma.
La pubblicità comparativa
Quest’ultimo aspetto merita una valutazione a parte.
Tale tipologia di pubblicità è poco diffusa nella nostra cultura. Ciò di cui invece si fa gran uso sono i claim pubblicitari c.d. iperbolici (ad es. “ti sfidiamo a trovare di meglio!”). Essi non sono considerati ingannevoli dell’AGCM perché si reputa che il cittadino sia consapevole che si tratta di un’“esagerazione”. Al contrario, altri Enti (tra cui lo IAP) valutano di “natura comparativa indiretta” tali tipologie di messaggio, considerandoli spesso ingannevoli. Non è dato sapere quale sarà l’orientamento degli Ordini, anche se è del tutto probabile che sia di tipo restrittivo.
Occorre quindi valutare con attenzione se e quale claim eventualmente scegliere.
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