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Interazioni tra i materiali di rivestimento per fusioni e leghe

M. Busardò

M. Busardò

lun. 4 giugno 2012

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La realizzazione di strutture per restauri in metallo-ceramica è oggi un lavoro di routine nel laboratorio odontotecnico. La forma dell’armatura e la sua superficie hanno una grande influenza sulla stabilità dell’adesione tra ceramica e lega impiegata. Una corretta lavorazione della superficie evita insuccessi tecnici che potrebbero verificarsi durante il processo lavorativo. Il rivestimento per fusione, vista la sua applicazione, gioca un ruolo fondamentale: nel seguente report verranno riportate e descritte alcune osservazioni sull’argomento.

Le masse di rivestimento traggono origine da materie naturali; la loro estrazione procede nelle cave e, con diverse metodiche di frantumazione, triturazione e cernita, arrivano alla fase di polverizzazione, ottenendo nel contempo codici di tracciabilità ed etichettature elettroniche, derivanti da test relativi alla produzione. Esistono - ed è corretto prenderne atto - lievi scostamenti anche negli stessi stock, visto che la cava è un sito dinamico dovuto a continui spostamenti per l’estrazione della materia prima; pertanto, si possono registrare differenze nelle caratteristiche e nelle prestazioni di masse eguali. In questo modo, noi utenti cerchiamo una ripetitività di risultati, con delle masse che all’origine presentano nella loro composizione difformità, alterando - a parità di condizioni, uso e attrezzature - risultati che consideriamo consolidati. È una logica conclusione a cui tutti siamo già arrivati da tempo, in relazione a quanto detto, e cioè che, quando si mette a punto un rivestimento, ne riconosciamo ogni oscillazione e sappiamo correre subito ai ripari nel suo utilizzo successivo.

Composizione

La silice è una sostanza refrattaria e conferisce questa caratteristica alla massa: serve a ottenere l’espansione durante il riscaldamento, che compensa la contrazione delle leghe. Esiste in diverse forme allotropiche, tutte composte da tetraedri di silicio e ossigeno. La forma più densa è il quarzo. Scaldando il quarzo oltre gli 870 °C, otteniamo una struttura meno densa: la tridimite; con un ulteriore riscaldamento a 1470 °C, otteniamo una forma meno densa: la cristobalite; scaldando oltre i 1713 °C, si ottiene il quarzo fuso a struttura amorfa. Queste trasformazioni sono dovute a piccole rotazioni dei tetraedri di silicio e ossigeno e, comportando un allineamento dei legami, sono accompagnate da una diminuzione di densità e, quindi, da un’espansione.
Tra i 200 e i 270 °C si ha la trasformazione della cristobalite da alfa a beta; sono proprio queste inversioni che vengono sfruttate per ottenere l’espansione termica dei rivestimenti. La trasformazione del quarzo comincia a 570 °C, e la sinterizzazione si completa dai 820/870 °C. Chimicamente è questo il procedimento attraverso il quale si determina all’interno dei nostri cilindri quel delicato processo che nel forno da preriscaldo definisce la formazione della giusta cavità in termini volumetrici. L’esito che distingue la precisione di tutto il procedimento è legato a molte variabili che verranno esaminate in seguito.

Introduzione

Nel report precedente sono state prese in considerazione alcune tra le cause che pregiudicano le strutture metalliche durante la fusione, rendendole alle volte anche inutilizzabili. Sono state compiute, inoltre - sfruttando le immagini al microscopio a scansione elettronica (SEM) - indagini più approfondite, appurando non solo le problematiche, ma anche gli elementi che le generano. Obiettività e riscontro - canoni che stanno alla base di ogni valida osservazione ­- hanno accompagnato questa analisi.
L’attenzione è stata soffermata sui materiali da rivestimento: questa analisi può essere considerata come seguito e completamento del report precedente, visto il dualismo inscindibile che si instaura tra il metallo fuso e lo stampo di fusione.
L’analisi tende a evidenziare alcuni fattori che interagiscono, anche a nostra insaputa, tra questo materiale fatto di silicio, quarzo, sostanze leganti, e le leghe. Lo sforzo che si compie in questi casi, è quello di arrivare a stabilire con relativa certezza degli step, o momenti di osservazione, per i quali è possibile giungere a risultati utili a elevare gli standard produttivi, in termini di qualità e ripetitività. Per il primo degli aspetti appena citati, ne siamo artefici e responsabili, per il secondo, si apre uno scenario ampio e articolato, dove le variabili risultano tante e suscettibili (solo per citarne alcune):
- volume degli oggetti che intendiamo riprodurre;
- materiali usati: cere, resine o plastiche;
- riduttore di tensione;
- fusione eseguita a espansione libera o con cilindro metallico;
- temperatura ambiente;
- pH dei liquidi;
- velocità di miscelazione;
- livello del sottovuoto raggiunto durante la miscelazione;
- tempi e temperature di preriscaldo;
- forno;
- tipologia di fusione (fiamma o fonditrice);
- stoccaggio del materiale;
- tracciabilità del materiale.

Fatto riferimento alle variabili, è utile ricordare che i rivestimenti sono classificati in base alle temperature di impiego e al legante, che può essere gesso o fosfato. Con i rivestimenti a legante gessoso non si possono fondere leghe la cui temperatura superi i 1200 °C: per via delle reazioni imputabili al gesso e alla silice, si libererebbe SiO3 (anidride solforosa), dannosa per le leghe (causa porosità). Pertanto, per le leghe ad alta temperatura di fusione, come i Cr/Co, si usano i rivestimenti a legante fosfatico. Il fosfato di ammonio, in questo caso, è l’agglomerante, responsabile della fluidità; consente lo scivolamento delle particelle di quarzo e cristobalite su una pellicola ideale formata dal fosfato. Nei liquidi troviamo: acqua distillata, sol di silicio, (responsabile dell’espansione di presa) e antigelo.

Materiali e Metodi

È necessario, prima di tutto, chiarire che per un corretto uso delle polveri, così come dei liquidi, non si può prescindere da una corretta temperatura di esercizio; la temperatura è un parametro fondamentale: i liquidi al di sotto di 5 °C cristallizzano e perdono i loro requisiti, così come temperature superiori ai 30 °C interferiscono nelle dinamiche di presa e di miscelazione. Lavorare con temperature intorno ai 24 °C rappresenta una buon compromesso. L’impasto che si genera in queste condizioni ambientali offre un aspetto, in termini di consistenza e fluidità, reputabile come ottimale. Basterà una lieve vibrazione per indirizzarlo all’interno delle cavità di modellazione in maniera assai agevole.

Controllo del pH
Prima di procedere con l’impasto, è fondamentale controllare il pH del liquido. L’operazione è immediata e sufficientemente precisa già con le cartine al tornasole (Fig. 2), che ne rivelano una spiccata basicità; se ciò non fosse un viraggio verso l’acidità, suggerirebbe l’idea di cambiare il flacone del liquido, in quanto tutte le reazioni risulterebbero alterate, riflettendosi sull’operato con dannose conseguenze.
Adottate queste precauzioni relative al pH e alla temperatura, si procede con l’atto della fusione, che comincia inevitabilmente quando all’interno dei cilindri (siliconici o metallici) viene rinchiuso il modellato.

Presa del rivestimento
Vengono distinti due comportamenti diversi legati alla tipologia del rivestimento in uso:
a) rivestimento tradizionale: espansione di presa 0,30 - espansione termica 1,2;
b) rivestimento rapido o speed: espansione di presa 0,85 - espansione termica 0,65.

L’uso diffuso dei rivestimenti rapidi consente di introdurre il cilindro nel forno alla temperatura prestabilita dal produttore. Basta attendere, in base al volume, il tempo di permanenza prima di eseguire la fusione.
È chiaro che questi rivestimenti contengano percentualmente un’alta quantità di quarzo. Il quarzo assolve a diversi compiti: tra gli 820-870 °C sinterizza regolando l’espansione; torna a contrarsi per più del 90% di quanto si è espanso, tornando al punto zero come dimensione; detiene la caratteristica di refrattarietà ecc.
Nei rivestimenti fosfatici, oltre al quarzo, la polvere contiene:
- silice: conferisce resistenza alle alte temperature;
- fosfato di ammonio: solubile in H2O, libera ioni fosforici;
- ossido di magnesio: reagendo con gli ioni fosforici in H2O, determina la resistenza del rivestimento a temperatura ambiente.

Il fosfato di ammonio viene messo in quantità superiore rispetto a quella richiesta dalla reazione precedente, in modo che il fosfato che non ha reagito con l’ossido di magnesio a temperatura ambiente possa reagire con la silice ad alta temperatura, formando così i silicofosfati complessi, che aumentano la resistenza del rivestimento. Perciò, dopo la presa, il rivestimento presenta una tale resistenza che può affrontare il ciclo termico senza l’uso dei cilindri metallici.

Controllo delle masse
Prima di collocare il modellato in cilindro, è opportuno avere chiare dimensioni ed estensioni. Circa la posizione, la sezione dei perni e il diametro della barra, abbiamo già parlato nel report precedente.
Risulta determinante, al fine di controllare inutili deformazioni dovute a spessori di rivestimento vuoti e notevolmente spessi, individualizzare la forma del cilindro, confrontandola con l’oggetto da riprodurre (Figg. 6a, 6b).
Pertanto, vengono modellati uno o più fogli di cera a seconda della necessità, per giungere allo scopo. L’uniformità delle masse che entrano in gioco stabilisce giusti rapporti di volume, che trasmettono un atteggiamento costante al rivestimento. Si ottiene un riscaldamento sinergico in tutte le direzioni, con rapporti di espansione molto prossimi a quelli preventivati. Gli esiti sono apprezzabili a occhio nudo, e si può realmente prendere in considerazione l’idea di fondere ponti di notevoli estensioni o intere arcate in monoblocco.

Preriscaldo
Fatto accenno alle trasformazioni allotropiche che accompagnano il rivestimento in funzione della temperatura, l’elemento fondamentale per qualità del calore e la sua propagazione è il forno. Capacità di impostazioni di diversi parametri, volume della camera, possibilità di integrazione con filtro di abbattimento dei fumi, sono sicuramente le prestazioni più richieste, senza sottovalutare la capacità irradiativa, ossia di generare calore, parametro fondamentale spesso trascurato.
Così come ci insegna la termodinamica, il calore si diffonde da basso verso l’alto, e dai corpi più caldi si dissipa calore verso quelli più freddi. Il nostro forno deve necessariamente irradiare calore da tutte le pareti, fondamentalmente dal basso, e quindi scaldare uniformemente il cilindro; deve inoltre possedere una base ondulata o di forma tale da favorire la fuoriuscita dei vapori e dei liquidi di calcinazione. Non è indispensabile che abbia una camera eccessivamente grande, perché per il ricircolo termico (aria calda) è idoneo un volume di circa 3 litri. Camere più grandi, infatti, danno vita a oscillazioni in termini di temperatura, che interferiscono sui processi chimici e di allineamento dei tetraedri di silicio e ossigeno che il rivestimento subisce in queste fasi.
È palese come la camera del forno scaldi solo per il 60% del volume, e comunque lontano dallo sportello. Stiamo parlando di un forno di ultima generazione (Fig. 7), valutato da chi scrive molto positivamente. La diffusione del calore in questa camera risulta omogenea, costante in tutte le direzioni, e i test eseguiti sui cilindri durante il riscaldamento con sonde termometriche ne rilevano l’autenticità. La base è provvista di un piano asportabile e ondulato.
In questo forno (Fig. 8), la capacità di generare calore risulta relegata alle due resistenze presenti ai lati della camera, e non avvolte nell’argilla refrattaria. Manca la diffusione da basso, e il fondo piatto non consente l’uscita dei vapori: sicuramente un forno non impiegabile per scaldare in modo rapido i cilindri. Infatti, gli stessi test eseguiti con sonde termometriche, evidenziano rallentamenti e zone di choc nella massa.

Diversità di comportamenti delle masse di rivestimento dopo la fusione

Conclusioni
Lo scopo che ogni odontotecnico si prefigge quando si accinge a realizzare una fusione è che questa sia più possibile consona al modellato. Pertanto, a prescindere delle tecniche usate, sbrattare un cilindro è sempre un momento significativo nell’arco della giornata, sia che esso contenga un solo elemento oppure un’arcata intera. Consapevoli del fatto che il successo sia la conseguenza della messa in opera di un protocollo reputato valido, il risultato non ammette e non prevede interpretazioni.
Negli anni passati chi scrive ha potuto osservare con oculatezza le fusioni che venivano realizzate, e con esse le barre, la lucentezza al taglio dei peduncoli, la compattezza, e quanto altro era possibile con gli ingranditori o microscopi da laboratorio. Da qualche tempo ho osservato anche l’aspetto dei rivestimenti dopo la fusione: come si frantumano, la durezza, il colore e l’ossidazione, comportamenti che si rivelano una costante per ogni marchio, ma non condivisibili (Figg. 10a, 10b). Così, visto l’intimo contatto con il metallo (Cr/Co) in questione, ho analizzato le interazioni. Lo strato e lo spessore di ossido rappresentano dati estremamente variabili, così come le insinuazioni nell’interfaccia metallica; questo aspetto è importante, in quanto non siamo in grado di eliminare completamente il silicio dalle nostre strutture, neanche con sabbiatura e cicli di detersione (vapore e ultrasuoni).
Ci troviamo di fronte a strutture le cui interfacce presentano contaminazioni di silicio e ossidi in grado di interferire con i processi chimici che si instaurano tra il metallo e la ceramica, provocando inevitabilmente bolle o crepe e, nei casi più esasperati, interi distacchi.
È pertanto opportuno verificare l’inerzia del rivestimento nei riguardi delle leghe, per attribuire eventuali responsabilità di insuccessi. Non è di certo un’analisi di facile risoluzione, visto i tempi sempre più ristretti con cui tutti facciamo i conti nella quotidianità, ma affidarsi a prodotti solo per sentito dire, non basta: bisogna reclamare a chi di competenza anche queste informazioni, insieme ai test che le aziende più scrupolose eseguono.
Nello stilare una procedura che valorizzi il nostro modo di realizzare fusioni uniche e perfette, in quanto a biocompatibilità e facilità di ceramizzazione, bisogna creare step o momenti di osservazione durante le fasi produttive, senza ignorare le caratteristiche dei materiali. Il mio impegno è volto in questa direzione, e la condivisione ne è parte attiva. Indipendentemente dal fatto che siano a nostra disposizione in laboratorio misurini da cucina, piuttosto che un misurino da perito chimico, o un piaccametro da analista, l’importante è che quando si è definito un iter lavorativo, qualora si dovesse cambiare, è opportuno iniziare aggiornando un passaggio per volta.

«È la relazione tra le cose che genera conoscenza».
Maria Montessori

Le ricerche, che hanno il solo scopo di archiviare l’esperienza odontotecnica, aldilà di qualsiasi voglia pretesa scientifica, rappresentano una forma narrativa della lavorazione e, arricchite dalle immagini step by step, sviluppano l’oggetto dell’attività del singolo case report, al fine di raccogliere con attenzione quelle informazioni che nella sintesi schematizzano il vissuto odontotecnico.

Ringraziamenti
Desidero ringraziare la Nobil Metal che, con le analisi al SEM, anche in questo caso ha reso possibile interpretare scientificamente ogni fenomeno, che altresì si presterebbe a molteplici chiavi di lettura; il signor Marchiano, nella veste di direttore commerciale, che ha accolto di buon grado e promosso la mia richiesta; il laboratorio Biolabor di Vincenzo Piacenti, che offre sempre il suo prezioso apporto per le fasi lavorative.

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L'articolo è stato pubblicato sul numero 2 di Lab Tribune Italy 2012.

 

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