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Dentista e paziente dinanzi alla pubblicità e alle fake news

Foto: Avv. Maria Maddalena Giungato.
Maria Maddalena Giungato

Maria Maddalena Giungato

lun. 12 marzo 2018

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Sempre più spesso in convegni e simposi si discute del rapporto tra pubblicità e attività sanitaria. Al di là delle opinioni personali – pro o contro la liberalizzazione pubblicitaria – un dato è assolutamente ricorrente: la grande confusione, ovvero la mancanza di indicazioni chiare, a livello legislativo e giurisprudenziale, che non consente di tracciare una linea di condotta univoca, nell’interesse, principalmente, del paziente.

Anzitutto pare non esserci piena sintonia, anche a livello istituzionale, sull’individuazione dei presupposti in presenza dei quali un messaggio pubblicitario debba ritenersi vietato. Per la FNOMCeO un messaggio pubblicitario, per essere corretto, ai sensi dell’art. 56 Codice di Deontologia Medica, non solo non deve essere, tra l’altro, ingannevole ma deve anche rispettare «nelle forme e nei contenuti i principi propri della professione medica».

La posizione dell’AGCOM (Autorità garante della concorrenza e del mercato) - per come sintetizzata, in parte motiva, nella nota sentenza TAR Lazio (1 aprile 2015 n. 4943) che aveva confermato la sanzione irrogata alla FNOMCeO dall’AGCM, poi riformata dal Consiglio di Stato (Sez.VI n. 167/2015) per diverse motivazioni – è nel senso che «sia la pubblicità promozionale che la comparativa sono lecite e non possono essere vietate, laddove prive di ingannevolezza, equivocità e denigratorietà», dunque senza altre limitazioni di sorta.

Anche secondo la Corte di Cassazione (15 gennaio 2007 n. 652, 9 marzo 2012 n. 37171 e 12 luglio 2012 n. 1186), la c.d. “riforma Bersani” (DL n. 223/0625 conv. L. 4.8.2006 n. 248) ha eliminato integralmente il divieto di pubblicità sanitaria che, quindi, in sostanza, per quanto interessa in questa sede, se non è ingannevole e denigratoria, non è soggetta a tutti i pregressi limiti.

Nondimeno, alcuni mesi or sono il TAR Liguria (sentenza n. 802/2017) ha precisato, all’opposto - con una decisione comunque sospesa in via cautelare dal Consiglio di Stato all’inizio del 2018 - che l’effetto abrogativo non è generalizzato e permangono alcune limitazioni nelle forme pubblicitarie, ivi compresa quella riveniente dalla necessità di indicare il direttore sanitario della struttura, come previsto dalla L. n. 175/92.

Una tale diversità e divergenza di interpretazioni genera confusione e disorientamento tra gli operatori e non giova al settore: sia ai professionisti seri sia - e soprattutto - ai pazienti. Il pregiudizio generato dalla confusione non riguarda solo i singoli ma l’intera collettività anche se, specie in alcuni contesti, si liquida sbrigativamente la questione pubblicità sanitaria come una faccenda di interesse meramente corporativistico: i professionisti impegnati in una lotta di retroguardia per tutelare posizione, reddito e supremazia di mercato.

Non credo sia così. La liberalizzazione indiscriminata della pubblicità e del mercato non tiene conto di quella cd. asimmetria informativa che intercorre tra medico e paziente e che permane inalterata anche allorché si preferisca chiamare quest’ultimo “consumatore”. Il professionista e i centri che erogano prestazioni sanitarie quando pubblicizzano la loro attività sanno – o certamente dovrebbero sapere – “di cosa si sta parlando”, ovvero che tipo di trattamento di cura stanno proponendo, che tipo di indicazione sussiste rispetto alla diagnosi posta – sempre che prima venga posta una diagnosi! - quali le controindicazioni e - se ci sono - le alternative terapeutiche.

Il paziente, invece, anche quando lo si voglia chiamare “consumatore”, di norma non dispone di tutti gli strumenti di conoscenza e di esperienza necessari per comprendere esattamente “di cosa stiamo parlando”, ovvero che cosa gli viene proposto. La liberalizzazione della pubblicità rischia di tradursi per il paziente in un eccesso di informazione e di offerta che il cittadino, specie quello più debole – socialmente, culturalmente ed economicamente – può avere difficoltà a gestire, con il rischio di essere sempre più esposto alle fake news, anche in ambito pubblicitario.

Si potrebbe facilmente obiettare che il nostro ordinamento vieta quella che potremmo definire la pubblicità delle fake news, ovvero la pubblicità ingannevole; ma è davvero così semplice in sanità individuare l’ingannevolezza di un messaggio pubblicitario e bloccarne rapidamente la diffusione? Non solo: possiamo equiparare la pubblicità delle prestazioni sanitarie a qualsiasi promozione di servizi, come noleggiare un’auto o scegliere un gestore telefonico? Siamo sicuri che in sanità i beni da tutelare attraverso la liberalizzazione pubblicitaria – la salute e la concorrenza - siano di pari livello? Siamo certi che questa sia davvero una conquista per il paziente-consumatore?

Probabilmente sarebbe il caso di supportare e garantire il cittadino, che oggi ha difficoltà ad orientarsi in una giungla di offerte, che gli vengono propinate a prezzi sempre più scontati ma anche per prestazioni sanitarie sempre più inutili – se non addirittura dannose – perché non rispondenti a una reale necessità di cura.

Il disorientamento sociale ha certamente costi importanti non ultimo, quello - specie in periodi di crisi economica - di un paziente-consumatore che rischia di sottrarre risorse essenziali – in termini di tempo e denaro – ai trattamenti di cui ha realmente bisogno per destinarle a prestazioni sanitarie dettate solo da lusinghe pubblicitarie e falsi bisogni di cura a discapito, per l’appunto, di esigenze di trattamento reali. Un sistema siffatto non si fa carico del paziente: è il paziente che si fa carico di sé stesso.

Per superare l’impasse, quantomeno a livello operativo, una collaborazione tra le istituzioni maggiormente impegnate sul tema, anzitutto la FNOMCeO, e quindi gli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri, e l’Antitrust sarebbe veramente auspicabile.

Gli Ordini dei Medici operanti sul territorio – che oggi la Legge Lorenzin (L. 11.1.2018 n. 3) definisce quali organi sussidiari dello Stato – svolgono un ruolo importante, perché possono cooperare per esercitare funzioni di monitoraggio e vigilanza: di norma, infatti, sono in condizioni di rilevare immediatamente, anche in virtù di specifiche competenze proprie degli “addetti ai lavori”, la diffusione di messaggi dal contenuto ingannevole, alla cui rilevazione potrebbe altresì contribuire la recente – meritoria – attivazione da parte della FNOMCeO di un apposito portale (“dottoremaeveroche”) che, anche nel titolo “dottore, è vero che…?”, promette di rivelarsi uno strumento prezioso a disposizione del cittadino.

Tuttavia, a parte sanzioni disciplinari a carico dei professionisti coinvolti, gli Ordini non hanno potere inibitorio, poiché non possono bloccare la pubblicità scorretta, potere riservato all’Antitrust. L’Autorità, d’altronde, che dispone di ampi poteri, riceve giornalmente moltissime segnalazioni che necessitano di complessa istruttoria e approfondimenti, alla cui realizzazione gli Ordini potrebbero validamente contribuire, assicurando competenza e conoscenza del territorio, con una ricaduta positiva - pure in termini di risparmio di tempi e di costi - sulle verifiche del settore, certamente non facili in un mercato in continua evoluzione e, per molti versi, sempre più spregiudicato.

Verosimilmente potrebbe, dunque, rivelarsi utile un protocollo di intesa per concordare un’azione sinergica, coniugando le potenzialità degli Ordini a livello locale con le competenze - anche inibitorie - dell’Antitrust, nell’interesse, in primo luogo, del paziente e, quindi, della salute pubblica.

Regole chiare e per tutti sono la prima garanzia per la tutela della concorrenza e per la salute del cittadino ma, in assenza di controlli certi e tempestivi, rischiano di rimanere una dichiarazione di intenti che, lungi dal garantire trasparenza e libero mercato, minacciano di rafforzare il contraente più forte, che non è certo il paziente, con buona pace della tanto sbandierata liberalizzazione.

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