Come si può sottolineare il trentennale di una legge che ha cambiato la fisionomia della professione odontoiatrica in Italia, rompendo antichi schemi, creando nuova figure, sollevando attriti e ostracismi, ma allineando l’Italia al resto del mondo nella configurazione di una nuova figura professionale? Lo si può, tagliando una torta e rievocando il “come eravamo” prima e dopo 30 anni. Oppure focalizzando l’analisi sociologica su un problema caldo, caldissimo come l’accesso (programmato o libero?) alle Facoltà odontoiatriche e, soprattutto, sulle possibilità di lavoro, una volta conseguita la laurea.
Appare evidente (ed anche giustificato) che da qualche tempo, date le circostanze, i giovani siano alla ribalta, in tutte le associazioni, sindacati, società scientifiche che popolano il dentale: vezzeggiati ma al tempo stesso commiserati per le criticità cui vanno incontro nel coronare il sogno “Voglio fare il dentista!” e una volta conseguita l’agognata laurea. Nessuna sorpresa quindi se il “Congresso politico” dell’AIO, svoltosi nella giornata di sabato 22 nell’Auditorium di via Cavour, a Roma, si è ispirato al (dolente) tema della “Formazione per il dentista di domani”, dove l’espressione “di domani” può attagliarsi sia allo studente che aspira ad entrare nel tempio del sapere odontoiatrico sia al neolaureato, desideroso, anzi bisognoso, di misurarsi con la realtà quotidiana della professione.
Al “Voglio fare il dentista!” che suona quasi come un’invocazione, si è ispirata anche la prima parte del Congresso, quando al microfono Graziano Langone e Gaetano Memeo, giovani e brillanti odontoiatri dalla favella particolarmente sciolta, hanno elencato le asperità di un percorso, un tempo in discesa, trasformatosi in arduo pendio. Anche se, guardandosi attorno, i due non hanno potuto non ammettere di essere, in fondo, più fortunati di tanti altri coetanei, che in altre professioni, fanno molta più fatica.
Una delle trovate più originali e coinvolgenti della mattinata è stato il “Terzo grado” cui si sono sottoposti Alessandro e Antonio, due neolaureati, ai quali, senza rivelare al pubblico dove avessero fatto l’Università, sono state poste domande dettagliate sulla loro esperienza universitaria. Si sapeva solo che uno aveva studiato all’estero, l’altro in Italia. Non c’è voluto molto per capire che Alessandro, figlio d’arte, era uscito da una nota (e assai costosa) Università spagnola, di cui elencava entusiasta il clima favorevole allo studio, la vicinanza costante del professore (grande professionista, ndr), l’”assorbenza” della clinica.
Insomma un’”esperienza consigliabile” da tutti i punti di vista, malgrado la scarsa nomea che le Università straniere hanno presso di noi. Consigliabile soprattutto, per la relativa tranquillità con cui, grazie a quegli studi, avrebbe affrontato la pratica professionale (e non solo perché figlio d’arte. Laureato invece in un’Università italiana, molto meno costosa di quella spagnola, Antonio ha manifestato varie e radicate perplessità sul suo “cursus studiorum”: in parole povere, tanta teoria e poca pratica. O almeno: i tirocini ci sono, ma non professionalizzanti, perché fatti senza approfondire conoscenze preventive. Di qui il desiderio, anzi il bisogno, di avere a fianco un professionista più anziano cui appoggiarsi nei primi passi nella professione.
La domanda più intrigante però è stata sul come Alessandro e Antonio vedevano il loro futuro. Abbastanza scontato per il “figlio d’arte”, un tranquillo accesso all’accogliente studio di famiglia, accompagnato dall’affermazione appassionata “Questo è il mio Paese e qui voglio restare”, mentre Antonio ha ventilato “obtorto collo” la possibilità di un impiego nei low cost, malgrado la sua gran voglia di approfondire l’esperienza clinica. Né ha escluso di doversi recare all’estero, considerato un male minore dinanzi alla prospettiva della dis (oppure della sotto) occupazione, prospettiva posta dietro l’angolo per via della famigerata “pletora”.
Illustrata in apertura da Delogu con cifre inquietanti e riemersa in tutta gravità nel corso della Tavola Rotonda, Delogu ha ricordato al pubblico che in Italia sono in funzione ben 34 corsi di laurea (il che tuttavia non significa in sé, pletora, ndr), che il rapporto di 1 odontoiatra ogni 1ooo abitanti, il doppio di quello previsto dall’Oms si sta aggravando a fronte di un migliaio di richieste di iscrizione all’Ordine da parte di giovani neolaureati in rientro dall’estero e delle “assoluzioni ” a raffica fatte dal Tar. Quelle che fanno a Matteo Palumbo che l’Italia è una “Repubblica democratica fondata sui ..ricorsi”.
Il suo intervento, molto applaudito, ha rappresentato una nota insolita nel coro di critiche, puntualizzazioni, soluzioni e prese di posizione scaturite dalla Tavola rotonda. Docente di letteratura italiana all’Università di Napoli Palumbo, scusandosi ripetutamente per essere un “corpo estraneo” si è chiesto, lui stesso cosa c’entrasse Dante con l’odontoiatria e i suoi problemi, ammonendo subito dopo di dover considerare se stessi (i professionisti) ed il paziente, da un punto di vista culturale, non solo tecnico. Ha ricordato al proposito Francesco De Sanctis che nel 1856, in virtù dell’humanitas, venne invitato dal Politecnico di Zurigo a tener lezioni di letteratura italiana agli squadrati ingegneri svizzeri. «Perché non c’è professione tanto speciale che non possa essere disgiunta dall’umanesimo – ha sottolineato Palumbo - visto che l’uomo è un insieme di cuore cervello e fantasia. E visto che prima di essere dentisti, voi siete uomini».
Per vivacizzare ulteriormente il dibattito, il moderatore Mauro Miserendino ha chiesto al pubblico se qualcuno conosceva la data di nascita di …Alessia Marcuzzi, chiarendo dinanzi al generale sconcerto, che era una domanda di “cultura generale” compresa nei test di accesso alla Facoltà. E lo ha chiuso con un altro coup de théatre: «Alzi la mano – ha detto, rivolto agli astanti, inchiodati al dibattito fino all’ultimo - chi è favorevole al numero chiuso». Fin troppo facile indovinare chi, tra i favorevoli e contrari, è prevalso.
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