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Un nuovo Codice deontologico per intercettare il futuro

Valerio Brucoli

Valerio Brucoli

mer. 23 gennaio 2013

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Era il dicembre del 2006 quando fu licenziata l’ultima versione del nostro Codice deontologico. Infuriavano le polemiche sul caso Welby, dramma che costrinse a una riflessione sul limite dell’autodeterminazione del paziente.

Da allora molta acqua è passata sotto i ponti. Così tanta da fare sembrare il mondo di sei anni fa un altro rispetto all’attuale. Sicuramente tra i settori che più hanno risentito dei cambiamenti c’è quello sanitario, che ha visto aprirsi ampi dibattiti su principi mai messi in discussione nonché, per diminuzione di risorse, riconsiderare diritti che dal dopoguerra in poi sembravano acclarati.
Dal punto di vista dei principi, si pensi solo alla questione dell’autodeterminazione del paziente, si è dato il via a una serie di confronti sul rapporto tra medico e paziente, che si è poi estesa a quello tra persona e società e alle relative determinazioni di diritti e doveri. Facile travisare: in qualche caso si è arrivati all’eccesso di far diventare punto di riferimento i singoli desideri egoistici, filosofia utile al mercato del profitto, meno allo sviluppo di una società armonica. Seppur in maniera differente, però l’idea di regolare economicamente i rapporti umani ha influenzato le nuove organizzazioni della società, a partire dalla più complessa di tutte che è quella sanitaria.
L’applicazione dei nuovi modelli, di cui sei anni fa si parlava solo teoricamente, in molti casi è diventata realtà operativa, accelerata dalla limitatezza delle risorse per la dirompente crisi economica cominciata nel 2008. Aggiungo: applicazioni avviate senza forse analizzare a fondo tutte le possibili implicazioni nel rispetto dei principi di umanità, solidarietà e impegno civile (art. 1 C.D.). Questo ci porta a un’attualità fatta di confronti serrati tra chi vuole affermare il primato dell’economia e chi pensa invece che il primato debba rimanere dell’uomo, soprattutto in contesti – come la cura – dove una profonda relazione interpersonale è indispensabile.
In campo sanitario tutto ciò si traduce nello scontro tra il classico modello medico centrato sul rapporto umano e i nuovi modelli economici basati sull’erogazione della prestazione. Uno scontro giocato a suon di leggi, diverse quelle che ci hanno visto coinvolti negli ultimi tempi e che di fatto hanno imposto la rivisitazione del Codice deontologico. Si pensi ad esempio al rapporto con le nuove professioni sanitarie, cui si cerca di demandare sempre più compiti “perché così si risparmia”, lasciando irrisolto il problema se la cura sia semplicemente la somma dei suddetti compiti o un qualcosa di più; visto anche l’esponenziale aumento dei ricorsi ai tribunali.
Da qui una serie di problematiche: bisogna riaffermare la validità dell’atto medico, come chiede chi è convinto che la cura sia un unicum da esercitare in libertà di scienza e coscienza o sostituirlo con l’atto sanitario, come chiede chi gestisce organizzazioni in cui i medici sono semplici operatori dipendenti? In questo caso sono ancora validi i concetti di libera scelta e rapporto di fiducia, oltreché di esercizio in scienza e coscienza? Una legge che impone al medico il rispetto della linea guida ospedaliera, prima che del Codice deontologico, è da accettare oppure no? Come inquadrare, in questo contesto, l’obbligatorietà dell’assicurazione?
Situazioni che sembrano interessare solo il SSN, ma che hanno pesanti ripercussione – dirette e indirette – anche nel privato, visto che lì si ricercano risorse “a costo zero” per compensare i deficit di bilancio statali: un esempio è l’effetto che potrebbe avere l’introduzione dei fondi integrativi, anche in termini di surrettizia imposizione di regole. Altro esempio importante è quello della pubblicità, anima di un commercio che una certa imprenditoria vorrebbe libero anche in campo sanitario. Anche qui, di passaggio in passaggio, si pongono diverse problematiche: sarà sufficiente un consenso informato, ormai usato più come difesa giuridica che non come presupposto del rapporto di fiducia, a contrastare mirabolanti promesse (soprattutto in campo estetico) che non giustificano tuttavia mirabolanti aspettative di pazienti che chiedono di essere unici giudici di interventi che, seppur eseguiti correttamente, non raggiungono il soggettivo risultato del benessere psico-fisico?
L’attuale definizione di salute come reggerà all’assalto del gradimento-cliente? Bisognerà ipotizzare la costante presenza di un terzo giudicante, oltre che del terzo garante e pagante? Pesanti le implicazioni in termini di binomio medico-paziente che, di questo passo, rischia di essere sostituito da quello mediatore-cliente, con il medico trasformato nel vero “terzo”, in un operatore acritico gravato peraltro da grandi obblighi, che hanno un senso per un medico, molto meno per uno che lo è solo di nome.
Al di là del fatto che sono tanti gli argomenti che meriterebbero di essere approfonditi (si pensi all’ecm, alle società tra professionisti, alla medicina legale, all’obbligo di mezzi o di risultati e così via), in conclusione direi che è proprio questa la sfida più importante di questo nuovo Codice: aiutare a definire un contesto per cui i doveri del medico abbiano un significato, perché questo vorrà dire che il nostro paziente avrà vinto. E noi con lui.

 

L'articolo è stato pubblicato sul numero 1 di Dental Tribune (gennaio 2013).

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