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Perimplantiti: “i nuovi mostri”

gio. 20 marzo 2014

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Sabato 30 novembre 2013 Implant Tribune ha incontrato il prof. Massimo Simion al meeting organizzato dall’Ordine dei medici e degli odontoiatri di Roma sul tema “Nuove acquisizioni in chirurgia implantare avanzata. Gestione dei tessuti duri e molli e dei siti post-estrattivi immediati”, alla presenza di circa 600 persone. Il prof. Simion è uno dei massimi esperti di questa disciplina. Gli abbiamo posto alcune domande di sicuro interesse.

Le perimplantiti sono un problema così importante oppure possono essere considerate un evento gestibile?
Le perimplantiti sono un problema molto attuale, progressivamente crescente dell’odontoiatria e, purtroppo, non sono facilmente gestibili. La loro incidenza è sicuramente sottostimata, perché se non si effettua un attento esame diagnostico, vengono riconosciute tardivamente. Il nostro compito fondamentale è quello di riconoscere e trattare precocemente le patologie perimplantari. Alcuni autori presentano percentuali di prevalenza eccessivamente elevate (40% degli impianti e 56% dei pazienti), ma le stime più corrette sono state riportate al Consensus Meeting di Estepona (Spagna) nel 2012: si possano assestare sul 10-15% degli impianti.

Le superfici ruvide hanno un ruolo specifico in questo problema?
Le superfici ruvide sono più facilmente colonizzabili dai batteri e, una volta infettate, sono praticamente impossibili da decontaminare.

In termini pratici, perché le perimplantiti vengono considerate uno “tsunami” in odontoiatria?
Perché si verificano dopo cinque o sei anni dall’inserimento degli impianti, quando in genere, si abbassa la guardia, pensando che i fallimenti avvengano solo nei primissimi momenti. Sono quindi destinate ad aumentare esponenzialmente in un futuro prossimo. Una volta installatasi la perimplantite, l’unica terapia possibile è la rimozione meccanica del biofilm batterico e la levigatura della superficie ruvida dell’impianto con frese o pennellini di titanio, trasformandola in sostanza in una superficie liscia. Nonostante ciò, la percentuale di successo della terapia contro le perimplantiti è molto bassa: attorno al 50%.

E quindi cosa consiglia di fare?
Innanzitutto prevenire, utilizzando impianti con superfici lisce come abbiamo fatto per i primi 25 anni di osteointegrazione. In secondo luogo, richiamando più spesso (anche ogni tre mesi) i pazienti implantari che devono essere monitorati come i pazienti parodontali.

Nel carico immediato cos’è più importante? La superficie, la geometria o la tecnica operatoria?
Ci sono evidenze istologiche che dimostrano l’importanza del design dell’impianto, che deve consentire un’ottima stabilità primaria. La superficie di contatto con l’osso alveolare deve essere la maggiore possibile al momento dell’inserzione, per questo è importante rispettare l’inclinazione e la forma del sito preparato. Le ricerche sperimentali che sto svolgendo con colleghi ricercatori internazionali sembrano dimostrare, contrariamente a quanto affermato fino ad oggi, che le caratteristiche della superficie implantare siano ininfluenti sulla velocità e la qualità dell’osteointegrazione.

Lei sta utilizzando impianti con superfici lisce dette “machined”: si tratta di un ritorno al passato?
C’è stata una fuga in avanti troppo veloce nello sviluppo e nella proposta commerciale di superfici ruvide. I primi impianti che io e i miei colleghi abbiamo inserito negli anni Ottanta hanno un eccellente tasso di sopravvivenza a distanza di moltissimi anni. Non mi sento di dire la stessa cosa per gli impianti con superfici trattate. Poiché quello che conta principalmente è la geometria implantare, non vedo alcuna necessità di utilizzare impianti con superfici ruvide, che sono più aggredibili dai batteri.

Lei è anche uno dei padri della GBR; per quanto riguarda la rigenerazione, quanto conta la membrana? E quanto l’osso e la tecnica?
Ritengo che sia opportuno miscelare osso autologo con osso bovino deproteinizzato per associare proprietà osteogeniche e osteoinduttive del primo alla capacità di mantenere stabile nel tempo il volume dell’osso rigenerato del secondo. Le membrane sono indispensabili per ottenere risultati soddisfacenti. In particolar modo quelle non riassorbibili in PTFE sono ancora le uniche ad essere affidabili negli interventi di aumenti verticali di cresta. La qualità della tecnica chirurgica è assolutamente fondamentale e costituisce un’importante variabile per il successo delle terapie rigenerative. Finalmente, oggi queste tecniche cominciano ad essere molto diffuse e applicate correttamente da molti colleghi. Richiedono una certa curva d’apprendimento, ma possono essere alla portata di molti odontoiatri che desiderano specializzarsi attraverso percorsi adeguati.

Ringraziamo il prof. Massimo Simion, certi di poterlo intervistare ancora non appena saranno disponibili nuovi dati in materia.

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