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La terapia funzionale delle II classi con l’attivatore di Andresen

Stefano Lumetta

Stefano Lumetta

lun. 10 ottobre 2011

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Una crescente attenzione sugli studi condotti sugli effetti della terapia funzionale, soprattutto per quanto riguarda la loro efficacia ed efficienza in termini di risultati ottenuti in un certo periodo di tempo e all’influenza che queste terapie hanno sulla crescita del sistema dento scheletrico.

Introduzione
Da parecchi anni ormai, assistiamo ad una crescente attenzione, da parte degli ortodontisti a livello internazionale, sugli studi condotti in merito agli effetti della terapia funzionale, soprattutto per quanto riguarda la loro efficacia ed efficienza in termini di risultati ottenuti in un certo periodo di tempo e all’influenza che queste terapie hanno sulla crescita del sistema dento scheletrico.
Nel Congresso Nazionale Ortec e Sido del novembre 2008 sono stati presentati dei poster che riportano i dati di uno studio sugli effetti della terapia con l’attivatore sui muscoli masticatori e sulle articolazioni, rilevati secondo la metodica di B. Jankelson, confermando che questo tipo di terapia non causa effetti peggiorativi sull’ATM; un altro studio che riguarda sempre gli effetti della terapia con attivatore ha riportato dei dati, rilevati attraverso elettromiografia, che confermano l’azione dell’attivatore nel controllo della crescita mandibolare(1).
Come evidenziato recentemente dagli studi del prof. L. Franchi, i dispositivi funzionali possono far ottenere degli evidenti incrementi di crescita mandibolare se applicati nel periodo in cui il paziente presenta il picco di crescita, facilmente individuabile da parte del clinico, mediante l’utilizzo in fase diagnostica del metodo delle vertebre cervicali(2).
L’utilizzo degli attivatori come l’Andresen in particolare, non può essere evidentemente generalizzato nel curare ogni tipo di malocclusione, la chiave del successo in ortodonzia è la conseguenza prima di un’attenta diagnosi e poi della scelta terapeutica più adatta al singolo paziente da parte del clinico; in un secondo tempo, per il tecnico, nel realizzare correttamente le fasi di fabbricazione del dispositivo richiesto, attenendosi come sempre alle attuali normative.
Il presente lavoro ha lo scopo di fornire una descrizione delle fasi di realizzazione del monoblocco di Andresen secondo la tecnica di laboratorio utilizzata dall’autore.

 

Generalità
L’Attivatore, pur dopo quasi un secolo dalla sua presentazione, è uno dei dispositivi ancor oggi più diffusi ed utilizzati in ortodonzia; i casi ideali di applicazione sono le malocclusioni di I classe e II classe 1° divisione con tendenza di crescita normo o ipo divergente.
Il dispositivo si propone di correggere la funzione neuro-muscolare eliminando la posizione scorretta delle arcate; la sua azione terapeutica, così come quella di molti altri apparecchi funzionali, è clinicamente osservabile a livello delle tre strutture fondamentali dell’apparato stomatognatico e cioè: denti-ossa-muscoli(3).
Come descritto in precedenza si può definire l’attivatore di Andresen come un monoblocco in resina, fornito di piani inclinati sia anteriori che nei settori latero posteriori, sui quali i denti sono costretti a scivolare quando il paziente chiude la bocca; per tale motivo l’Andresen viene definito un attivatore passivo.

 

Costruzione
Il monoblocco, così come altri dispositivi funzionali, deve essere costruito sui modelli fissati in vertocclusore, secondo il morso in cera rilevato sul paziente e fornitoci dal medico; questo rispetterà alcune caratteristiche fondamentali, come descritto ampiamente dal prof. M. Bondi nel suo testo, a seconda che le alterazioni riguardino il piano verticale e/o il piano sagittale(4,5).
È importante per il tecnico conoscere queste conformità tra il tipo di morso in cera e la malocclusione per verificare prima di iniziare la fabbricazione del dispositivo, che non ci siano errori nel morso stesso, che sarebbero la causa di un fallimento della terapia o peggio ancora di un danno sul piccolo paziente.
Per meglio descrivere tutte le fasi che conducono alla realizzazione di questo dispositivo, utilizzerò come esempio il caso clinico di un paziente che, pur essendo al momento della stesura di quest’articolo, ancora in terapia, ha collaborato molto bene nel rispettare le indicazioni fornitegli dal medico nell’indossare l’Andresen per le ore giornaliere prescritte, ottenendo degli ottimi risultati in 8 mesi di trattamento.
Dopo la colatura delle impronte e la squadratura dei modelli da lavoro, si verifica la congruità del morso di costruzione in relazione al tipo di monoblocco richiestoci, che in questo caso sarà costruito in modo da correggere sia la II classe che il morso profondo; per tale motivo avremo un morso in cera che avanza la mandibola fino alla posizione corretta ed un rialzo posteriore di ca. 4 mm, allo scopo di favorire anche l’estrusione dentale. Le figure da 1 a 7 mostrano i modelli con la situazione all’inizio della terapia e il relativo morso in cera; il paziente si presenta all’età di aa. 9,4 nel marzo 2010.
Si passa in seguito al fissaggio dei modelli in vert’occlusore con del gesso duro di classe III possibilmente dello stesso tipo utilizzato per sviluppare le due impronte (Fig. 8).
Liberati i modelli dal morso in cera, si procede alla realizzazione dell’arco vestibolare superiore con un segmento di filo di ca. 15 cm. del diametro di 0,8-0,9 mm in acciaio inox; l’arco verrà fatto passare lungo il terzo medio delle superfici vestibolari dei 4 incisivi e lo si farà rientrare tra il canino e il primo premolare (Fig. 9); se il caso lo richiedesse l’arco vestibolare può essere fatto rientrare tra i due premolari.
Fissati con cera collante sul modello superiore l’arco vestibolare e una vite per espansione trasversale di tipo medio (che suggerisco di mettere sempre) si procede alla ceratura delle due arcate per ottenere che la resina acrilica, durante la zeppatura, possa assumere già la forma più idonea al tipo di attivatore da realizzare (Figg. 10-12).
L’isolamento dei modelli può essere effettuato immergendo gli stessi in una vaschetta con acqua a temperatura ambiente per un tempo di dieci minuti, oppure come preferisco, con un isolante a base alginica.
Ottenuto l’isolamento dei modelli in gesso si procede alla zeppatura della resina con tecnica a spruzzo, che personalmente ritengo più economica e pratica; cominciando dal modello superiore si apporta l’acrilico dandogli la tipica forma a ferro di cavallo, in quantità tale da coprire le ritenzioni dell’arco vestibolare e la vite con uno spessore idoneo; si esegue poi la stessa operazione sul modello inferiore zeppando la resina sulla zona alveolare di tutti i denti. A questo punto si rimetteranno insieme le due parti del vert’occlusore e si completerà la procedura aggiungendo la quantità di resina necessaria a unire le due arcate, ottenendo cosi un corpo unico che risulterà essere quello finale del monoblocco di Andresen.
Terminata la fase di zeppatura, si introdurrà il vert’occlusore in polimerizzatrice per iniziare il ciclo di cottura della resina che dovrà avvenire con l’acqua a una temperatura di 40-45°C e una pressione di 2,5 atm, per un tempo non inferiore a 25 minuti.
Dopo il tempo di polimerizzazione si potrà staccare il dispositivo ottenuto dai modelli e pulire il tutto con acqua calda per eliminare i residui di cera. La rifinitura e la lucidatura del monoblocco sono fasi molto importanti perché servono a creare un dispositivo che deve essere leggero, confortevole, non deve presentare spigoli o bordi taglienti e deve permettere ai denti di scorrere lungo i piani di guida determinati con l’opportuno fresaggio della resina, mantenendo il contatto della resina al colletto dei denti (Figg. 13-17).
Questo fresaggio, che fa seguito alla fase precedente della ceratura delle arcate, va eseguito in laboratorio da parte del tecnico, in modo che nei successivi controlli periodici, il clinico non dovrà intervenire, quasi del tutto, nella gestione del monoblocco.
Per fare un esempio di come deve essere la resina al termine della rifinitura e fresatura del dispositivo, vediamo i premolari e il molare superiore, che sono liberi dal contatto con l’acrilico nella zona distale, allo scopo di ottenere un loro movimento in senso distale (Fig. 18); mentre i corrispettivi inferiori dovranno essere liberi dal contatto con l’acrilico nella zona mesiale allo scopo di ottenere un loro movimento di estrusione in senso mesiale oltre che un’azione ortopedica di correzione della seconda classe (Fig. 19).
La levigatura e lucidatura finale del dispositivo ottenuto, sarà eseguita come di consueto con la lucidatrice e la pasta pomice che personalmente utilizzo al posto della tradizionale in polvere, poiché può essere usata anche con gli spazzolini montati su micromotore da banco, permettendomi di arrivare alle zone interne di qualsiasi dispositivo funzionale senza il rischio di danneggiarlo (Fig. 20).
Infine si eseguirà il controllo del dispositivo ottenuto sui modelli per verificare i giusti contatti dentali; la redazione dei documenti prevede, come di consueto oltre alla documentazione fiscale, la completa registrazione sulla scheda di lavorazione, delle fasi di lavoro eseguite cronologicamente, riportando in modo preciso i lotti di appartenenza dei materiali che costituiscono il dispositivo.
Il confezionamento in bustina a chiusura ermetica, previa disinfezione del dispositivo e l’imballaggio con l’etichettatura in opportuni contenitori è altrettanto importante, specie nel caso di consegna a mezzo vettore, poiché ci garantisce che il nostro manufatto viaggi con una certa protezione contro gli urti.
Alla consegna sul paziente il clinico verificherà la corrispondenza tra quanto previsto dalla terapia e il dispositivo ricevuto, oltre ad avere un riscontro dal paziente stesso che non deve avvertire tensioni o dolorose pressioni nel momento in cui ha indossato il monoblocco (Fig. 21).
La terapia prescritta dal medico prevede che il paziente indossi il monoblocco per almeno 4/5 ore durante il giorno più le ore serali e durante il sonno, mentre non è prescritto di portarlo a scuola o durante eventuali attività sportive; le visite di controllo eseguite dal medico in questo caso sono state a cadenza mensile e già dopo otto mesi si sono potuti apprezzare degli ottimi risultati in termini di correzione della II classe oltre a un aumento della dimensione verticale (Figg. 22-26).

Conclusioni
Il lavoro del tecnico ortodontista è oggi più che mai di grande importanza nell’ambito delle discipline che si occupano della cura e del riequilibrio di un’anomalia dell’apparato stomatognatico, riguardante spesso il paziente di giovane età, ma non solo.
Il dovere etico, anche se ormai non più normativo, d’aggiornamento continuo è necessario perché offre al tecnico la possibilità di conoscere, scegliere e proporre al medico di utilizzare tecniche, dispositivi ortodontici, accessori e materiali per la fabbricazione di una qualsiasi
apparecchiatura, sempre nuovi e all’avanguardia, idonei a garantire terapie più efficaci e là dove possibile anche più veloci.
La preparazione del medico su determinati argomenti dell’ortodonzia funzionale e la giusta motivazione alla collaborazione che questi deve saper infondere nel piccolo paziente (e non solo) sono poi gli elementi fondamentali per il successo di queste terapie che risultano di grande attualità grazie agli aggiornamenti dati dalla moderna ricerca clinica.

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