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La tecnologia laser VSP nella gestione delle perimplantiti

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Il laser a erbio può agire praticamente in contatto con la superficie implantare senza danneggiarla.
M. Frosecchi

M. Frosecchi

mer. 10 maggio 2017

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La moderna implantologia ha raggiunto un elevato grado di affidabilità e i livelli di sopravvivenza riportati in letteratura risultano estremamente confortanti. Tuttavia le complicanze biologiche intervengono in misura di circa il 9% entro i primi 5 anni, nella media dei trattamenti implantari. Queste complicanze sono definite secondo due termini specifici: mucosite e perimplantite.

Nella mucosite si assiste a una infiammazione dei tessuti molli perimplantari senza riassorbimento osseo, mentre nella perimplantite è associata una perdita ossea. Colpiscono a lungo termine rispettivamente l’80-85% e il 24-56% degli impianti inseriti, a seconda degli studi pubblicati.
Segni tipici della perimplantite sono il sondaggio oltre la giunzione implantare e la perdita ossea radiograficamente apprezzabile. Possono anche associarsi suppurazione, sanguinamento, dolore, gonfiore, fino alla mobilità della fixture nelle fasi finali.
Nonostante sia comunemente accostata alla parodontite, la patologia perimplantare presenta specificità che devono essere tenute in considerazione per valutare l’opportunità e la strategia terapeutica da adottare. Eziologia e patogenesi della perimplantite sono ancora oggetto di studi, ma alcuni fattori sono stati identificati con un buon grado di evidenza scientifica.
Tra essi troviamo la scarsa igiene orale, il fumo di sigaretta, la periodontite come causa della perdita del dente, il cemento debordato negli spazi perimplantari, patologie generali, ecc.
Contrariamente da ciò che avviene nella parodontite, i fattori impianto-specifici risultano molto vari e influiscono nell’insorgenza, nella progressione e nelle possibilità di trattare la malattia. Tra essi troviamo il tipo di superficie, il tipo e la sede della connessione implantare, il posizionamento, ecc. Prima di scegliere l’approccio terapeutico è necessario che il clinico analizzi attentamente il caso, in quanto in alcuni di essi esistono problematiche impianto-specifiche che non rendono indicato il tentativo di recupero. Se ad esempio l’impianto si presenta danneggiato o mal posizionato, può essere più indicato semplicemente l’espianto. Anche in caso di fixture di provenienza ignota, per le quali non sia rintracciabile la componentistica protesica, deve essere valutato criticamente il tentativo di recupero.

Non esistono a oggi protocolli scientifici validati per trattare in maniera predicibile la perimplantite. Tuttavia la maggior parte degli autori indicano i seguenti punti chiave per il trattamento:
1. controllo dell’infezione;
2. decontaminazione della superficie implantare;
3. modifica dei tessuti duri e molli in sede perimplantare;
4. regime di follow-up specifico post-operatorio.
Il trattamento di fatto è assimilabile a un approccio chirurgico in sede di parodontite, con le varie possibilità rigenerative e/o resettive, con tecniche di innesto o meno, anche di tipo mucogengivale. Ciò che differisce sostanzialmente è la fase di decontaminazione e detossificazione della superficie implantare. Questa presenta difficoltà specifiche che rendono complicata l’adozione di protocolli sicuri da applicare estensivamente. Tra esse indichiamo:
1. differenze tra una superficie implantare e l’altra in termini di topografia, energia di superficie, microstruttura;
2. differenze di macro-struttura, ogni impianto può avere misure, spire, fori, solchi in grado di ostacolare le manovre di decontaminazione.
Alcune superfici implantari hanno dimostrato maggiore suscettibilità o maggiore progressione della perimplantite. La ricerca di tecniche per decontaminare la superficie in corso di perimplantite ha portato i clinici e i ricercatori a impiegare un gran numero di strumenti diversi: spazzolini metallici, particelle abrasive azionate da getti spray, strumenti rotanti, sostanze chimiche, strumenti meccanici o a ultrasuoni, laser di diverso tipo. Un mezzo di decontaminazione ideale dovrebbe essere in grado di eliminare i fattori patogeni senza danneggiare la superficie implantare, in modo da arrestare la progressione e facilitare una riparazione o rigenerazione dei tessuti duri e/o molli perimplantari.
I laser offrono numerosi vantaggi nel trattamento di mucositi e perimplantiti: decontaminazione, bio-modulazione, azione foto-termica, azione foto-acustica, azione foto-chimica, ecc. Ciascun laser presenta caratteristiche peculiari che ne differenziano azione ed effetti in modo sostanziale. Volendo esemplificare al massimo le caratteristiche dei laser più comuni possiamo indicare i seguenti caratteri salienti:
– i laser a diodo presentano principalmente un’interazione a scarsa profondità, di tipo foto-termico e presentano affinità con alcuni pigmenti scuri;
– i laser a neodimio hanno un’azione simile ai laser a diodo, ma con effetti anche a maggiore profondità;
– i laser a erbio o a erbio-cromo hanno principalmente un’azione foto-acustica, lavorano in superficie e hanno come bersaglio preferenziale l’acqua e l’idrossiapatite (Figg. 1, 2).
I meccanismi di azione dei laser sono estremamente sofisticati e richiedono un apprendimento specifico da parte dei clinici, al fine di comprendere come gli effetti derivino dalla combinazione di lunghezza d’onda, frequenza, potenza, tempo, modalità di erogazione, ecc.
Tutti i laser ad alta potenza hanno di mostrato una certa capacità di abbattere la carica batterica, seppure con meccanismi molto diversi. Anche i laser a bassa potenza possono contribuire alla decontaminazione con un effetto foto-chimico, cioè concentrando l’energia su pigmenti che selettivamente colorino il substrato da colpire (terapia fotodinamica).
In caso di perimplantite, il laser a diodo o il laser a neodimio possono essere impiegati in fase iniziale al fine di gestire la fase acuta di infiammazione, decontaminando le aree perimplantari, migliorando la risposta tessutale, in modalità anche non chirurgica. In questo caso l’azione si concentrerà maggiormente sui tessuti infiammati, più ricchi di pigmenti scuri. Un’azione diretta sulla superficie di titanio da parte di queste classi di laser, pur avendo una possibile azione decontaminante, può portare ad alterazioni superficiali da surriscaldamento. In caso di mucosite e di alcuni casi molto lievi di perimplantite, anche questa azione “a cielo chiuso” sembra essere sufficiente ad arrestare la patologia. La terapia della perimplantite è tuttavia normalmente affrontata “a cielo aperto”, cioè seguendo un lembo di accesso per trattare la superficie e i tessuti circostanti (Fig. 3).
In questo caso il laser a erbio costituisce uno mezzi più promettenti. Esistono numerose conferme scientifiche circa l’efficacia della decontaminazione della superficie implantare da parte del laser a Erbio. Con esso è possibile eliminare i tessuti infiammatori perimplantari, decontaminare la superficie implantare attraverso la rimozione del biofilm e modificare il tessuto osseo circostante. L’azione estremamente collimata e selettiva consente di limitare l’azione sui tessuti sani e di massimizzare dosi e azioni sui substrati batterici, non avendo una azione diretta sul titanio. Con la normale azione con spray di aria e acqua infatti il titanio non viene surriscaldato dal laser a erbio (Fig. 4).
L’azione a contatto di questo strumento rende più intuitiva per il clinico la valutazione degli effetti e si possono trattare sia tessuti duri sia tessuti molli, semplicemente variando i parametri.
Il laser a erbio con tecnologia VSP (Variable Square Pulse), inoltre, consente di utilizzare diverse durate d’impulso (da 50 a 1000 microsecondi), per ottimizzare l’effetto del laser sui tessuti. Gli impulsi quadrati evitano che la potenza dell’impulso aumenti e diminuisca troppo lentamente, come può avvenire invece con le tecnologie tradizionali. Questa innovativa tecnologia, oltre ad ampliare la gamma dei trattamenti effettuabili, assicura un assoluto comfort del paziente, massima semplicità di utilizzo, precisione e la sicurezza del trattamento laser.
Sono state introdotte in tempi recenti anche speciali punte per utilizzare il laser a erbio anche a cielo coperto, nelle tasche perimplantari. L’effetto foto-acustico di queste è in grado di comportare un distacco del biofilm e di depositi presenti (cemento, tartaro) in modo da essere utilizzate anche nella fase preliminare all’intervento (Figg. 5-12).
La terapia chirurgica della perimplantite può essere condotta con finalità “resettiva” o con finalità “rigenerativa”. Con la prima si rinuncia al tessuto duro andato perduto e si mira a esporre la superficie decontaminata, soprattutto se essa è stata lisciata. Solitamente porta a risultati che peggiorano l’estetica, ma la letteratura mostra risultati incoraggianti a medio termine. I risultati possono essere ulteriormente migliorati aggiungendo tecniche mucogengivali. Con l’approccio rigenerativo si mira a ristabilire il volume osseo andato perduto. Seppure i risultati auspicabili siano ideali, non esiste a oggi evidenza scientifica circa la “re-osseointegrazione” dell’impianto.
Il clinico dovrà quindi di volta in volta scegliere l’approccio più idoneo considerando anatomia del difetto osseo, gravità della lesione, problematiche generali del paziente, estetica, ecc.
In conclusione possiamo affermare che mentre nella terapia della parodontite esistono protocolli, tecniche e strumenti di riconosciuta efficacia, nella terapia della perimplantite, sia in fase non chirurgica sia in fase chirurgica, dobbiamo ricercare protocolli specifici. Il laser a erbio è da tempo uno dei mezzi maggiormente studiati per ottenere una decontaminazione efficace ma rispettosa della superficie implantare.

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L'articolo è stato pubblicato su Laser Tribune Italian Edition, maggio 2015.

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