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Integrazione fra protocolli di prevenzione odontoiatrica e sistemi educativo-relazionali in adolescenti a rischio di devianza

G.M. Nardi, O. Marchisio, P. Calzolaio

G.M. Nardi, O. Marchisio, P. Calzolaio

mar. 1 giugno 2010

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Questo lavoro nasce dall’esigenza di proporre una collaborazione con l’educatore professionale per approcciare i pazienti in ambito odontoiatrico che presentano delle situazioni di disagio. Lo scopo è quello di progettare un protocollo operativo di prevenzione che interagisca con le conoscenze in ambito pedagogico.

Il concetto di salute
“Uno stato di benessere psico-fisico e ambientale in assenza di malattia e malformazioni”.
Tale definizione di salute proposta dall’Oms è molto impegnativa; infatti, la sua traduzione in termini operativi, e soprattutto in azioni, ha sempre suscitato dubbi, riflessioni, discussioni.
Il carattere “utopistico” di tale definizione è molto chiaro e condivisibile, in quanto descrive una situazione di completa soddisfazione e felicità che, forse, non potrebbe mai essere raggiunta; ciononostante costituisce un punto di riferimento verso il quale orientare i propri sforzi. La traduzione di dichiarazioni di principio in strategie operative costituisce da sempre un processo complesso e difficile, soprattutto quando le implicazioni per l’azione richiedono il cambiamento del nostro modo di pensare e di agire.
In questo senso per dare un impulso significativo al perseguimento della salute da parte dei governi, a diversi livelli, l’Oms ha cercato di rendere operativa, a partire dagli anni ’80, due strategie che vanno sotto il nome rispettivamente di “promozione della salute” e di “strategie della salute per tutti”.
Ciò, soprattutto, nella consapevolezza che la salute è il risultato di una serie di determinanti, di tipo sociale, ambientale, economico e genetico, e non il semplice prodotto di una organizzazione sanitaria. Nel tempo, sul concetto di salute e sulla sua definizione si è sviluppato un dibattito internazionale e sono state formulate alcune proposte di definizione alternative. Fino a ora però hanno avuto poco successo e quindi la definizione dell’Oms rimane ancora un punto di partenza e di riferimento.

Individuo sano
Non possiamo assolutamente parlare di “individuo”, ma dovremmo parlare di “persona”. Fra questi due termini, apparentemente così simili, a volte associati come sinonimi, vi è un’enorme differenza che risalta solo “all’occhio pedagogico”. Per individuo intendiamo un soggetto senza volto, senza espressione, possiamo paragonarlo a una tipica maschera carnevalesca: anche lo sguardo è spento; per persona, invece, intendiamo tutte quelle dimensioni che entrano in gioco per far sentire un soggetto vivo: la dimensione corporea, fisica, psichica e affettivo-emozionale. Quindi, una “persona sana” è colei che riesce ad avere il corretto equilibrio fra queste sfere. Solo in questo modo potrà essere sempre meno utopistico e diventare più utopico il concetto di integrazione fra la salute psicofisica e ambientale in questo preciso momento storico e per il tenore di vita che possediamo. L’approccio dedicato ai pazienti in una struttura medica o ospedaliera deve essere umanizzato, deve considerare gli utenti “persone” e non semplici numeri o cartelle cliniche. In Italia, a differenza di altri Paesi dell’Unione Europea, ancora si va avanti per numeri più che per nomi e cognomi in questo tipo di strutture. Già nell’ambiente odontoiatrico la situazione cambia, in quanto solitamente l’igienista, il dentista e il team operativo posseggono una familiarità con il paziente e considerano l’approccio psicologico con il paziente.
La tradizione popolare, invece, ritiene sano chi non ha dolori, febbre o duraturi disagi, tanto da impedirgli di svolgere le proprie funzioni. Le “funzioni” dipendono maggiormente dall’età e dai ruoli sociali. Questa definizione ha il vantaggio di essere di “buon senso” e lo svantaggio di essere “poco qualificabile”.
La definizione dell’Oms propone una meta che è irrealistica e impossibile da raggiungere, dal momento che nessuno realizza mai in modo stabile e duratura una condizione di completo benessere fisico, psichico e sociale se non per pochi fuggevoli momenti.

Un sorriso sano e bello
Se sorridere è un problema che coinvolge l’autostima, Phyllis Diller asserisce che “un sorriso è una curva che raddrizza tutto”. Questa citazione nella sua semplicità racchiude tutta la meraviglia di un gesto tanto semplice quanto naturale, un cenno che può assumere innumerevoli significati sempre forieri di sentimenti positivi. L’importanza del ripristino di un bel sorriso è un importante aspetto riabilitativo che tocca soprattutto la sfera psichica, spesso sottovalutata nella sua reale importanza. Un sorriso sano, oltre al piacevole aspetto estetico, influisce sulla percezione che si ha di se stessi, giocando anche un ruolo significativo nelle relazioni interpersonali. Spesso capita di incontrare persone che per la loro bocca decisamente poco sana e poco estetica non sorridono mai o, quando lo fanno, portano una mano sulle labbra per impedire all’interlocutore di poter “guardare”. Spesso diventa così un gesto meccanico e abituale che manifesta disagio e poca autostima. Tutto questo porta poi a non avere buone relazioni con il mondo esterno.
“Avere un bel sorriso […] è un’esigenza dell’estetica” (Corriere della Sera, “Un sorriso di disagio”).
I denti, analogamente alla loro funzione, rappresentano in modo simbolico il desiderio di possedere, di triturare, di distruggere. Sono anche investiti di vari significati: aggressività, potenza, salute e bellezza. La perdita dei denti, specie quando avviene con la tenaglia del dentista, è assimilabile a una mutilazione. Perdere i denti significa sentirsi impoveriti di energia vitale, di forza aggressiva, di gioventù, di difese. Avere un bel sorriso, infatti, sia pure con l’aiuto di una protesi, è un’esigenza dell’estetica. Un’estetica che non è soltanto un lusso, ma fa parte della propria immagine, quella del corpo, che ha una profonda influenza sul “senso di sé”, su quel narcisismo che certamente è una normale sorgente di benessere psicofisico. Oltre al significato simbolico, i denti sono spesso protagonisti dei nostri sogni e, nella tradizione popolare, assumono un valore determinante nei fatti della vita. Si sogna spesso che i denti dolgano, che cadano o che ci vengano strappati. Secondo l’interpretazione popolare, questi sogni sono la premonizione della morte di un parente, secondo la psicoanalisi esprimono il timore o il desiderio (inconscio) dello stesso avvenimento. Vista, invece, come separazione di una parte del corpo, la caduta dei denti in sogno simboleggia per l’uomo il timore di perdere la propria virilità, la paura di castrazione (Freud); per la donna, il timore del parto o la paura dell’aborto (Jung). Più in generale, sia per l’uomo che per la donna, perdita d’energia vitale oppure sentimento di colpa.
Meno drammatica, ma pur sempre fonte di turbamento, è la reazione che può manifestarsi in coloro che rimangono delusi o perplessi di fronte al risultato estetico e funzionale della protesi. Può persino accadere che anche quando uno vede che il proprio aspetto è migliorato, senta la protesi, almeno all’inizio, come un’intrusione alla propria integrità psicofisica. Guardarsi allo specchio e vedere un nuovo sorriso, un nuovo profilo, un viso più pieno e disteso, può provocare, paradossalmente, un sentimento più o meno forte di disagio: innanzitutto perché anche un cambiamento in meglio può richiedere un certo tempo di adattamento interiore, poi perché sussiste un interrogativo su come questo mutamento d’aspetto verrà visto e giudicato dagli altri “un corpo estraneo”.
Di psicologia gli odontoiatri hanno cominciato a occuparsi in modo sistematico solo negli ultimi anni.
Per Bruno Condi, dell’Università di New York, la perdita dei denti finisce inevitabilmente con il ricorso a una protesi parziale o totale che è sentita come un corpo estraneo all’interno della bocca. L’applicazione dei denti sostitutivi non avviene mai senza provocare nel paziente reazioni emotive d’un certo rilievo, che un odontoiatra, con una visione integrale della sua professione, non può certo ignorare. Spesso il paziente pensa che con l’inserimento della protesi potrà vedere risolti, come per incanto, tutti i suoi problemi. Invece può averne di nuovi, specie se la protesi è mobile: non solo per gli inconvenienti tecnici (formazione di piaghette da decubito, dolori, instabilità protesica e difficoltà di masticazione), ma anche per un nuovo modo di rapportarsi con la propria bocca, con sé e con l’ambiente esterno. Si possono avere disagi anche nella sfera sessuale per chi cerca di nascondere al proprio partner la menomazione della protesi mobile o fissa.
Molti di questi problemi sono stati eliminati in modo definitivo con l’avvento dell’implantologia osteointegrata, che permette d’inserire i denti sostitutivi direttamente e in modo permanente nell’osso mandibolare e mascellare.
Per il professor Giulio Preti, del Dipartimento di protesi odontoiatrica all’Università di Torino, momenti di maggiore soddisfazione si raggiungono dopo aver adottato l’osteintegrazione dentale; si apprezza la trasformazione dei pazienti da handicappati a persone con una nuova qualità della vita. L’altro importante gruppo di pazienti che possiamo aiutare con questo sistema è costituito da coloro che hanno seri motivi, psicologici e pratici, di rifiutare la protesi mobile. Il dentista, oltre a fare un buon lavoro sul piano tecnico, deve essere un buon conoscitore delle conseguenze emotive del proprio operato. È importante che il suo supporto psicologico verso il paziente cominci fin dalla prima visita, fornendogli informazioni ben precise e prosegua nelle sedute successive con spiegazioni e consigli sui problemi che dovrà affrontare. L’odontoiatra è coinvolto più di quanto creda in questo problema. Volente o nolente, finisce con l’occuparsi anche della personalità del paziente.

Giovani a rischio di devianza e salute del cavo orale
Per i giovani a rischio, la salute, in genere, è proprio l’ultimo dei pensieri. Gli adolescenti con problemi di identità non rispettano il loro corpo e in particolare il cavo orale. Molti di loro fumano sigarette e spinelli, bevono alcol, fanno diete ipocaloriche, mettendo a dura prova il cavo orale. Il primo incontro con il dentista coincide con un episodio doloroso, dovuto magari a una carie o a gengive infiammate. Purtroppo bisognerebbe approfittare dell’evento per aiutarli a eliminare il dolore e ad avere cura della bocca. Indispensabile la collaborazione di un educatore per facilitare il compito al dentista, impegnato a curare i denti e non l’autostima della “persona ammalata”.
Sarebbe indispensabile integrare le politiche sociali a quelle sanitarie creando proprio dei collegamenti fra queste due realtà, in modo da fare prevenzione in tutti gli ambienti di vita del soggetto. Si dovrebbero inserire gli educatori in tutte le strutture pubbliche e private per integrare l’educazione con le pratiche di buona salute.
Sarebbe bello aggiungere negli studi dentistici, medici e nelle strutture ospedaliere, educatori e pedagogisti in grado di dare delle buone pratiche educative, ma forse l’Italia è ancora lontana dal raggiungimento di queste pratiche all’avanguardia.
Gli ambiti importanti di prevenzione, in cui fare prevenzione, sono tutti i luoghi in cui i soggetti giovani trascorrono il loro tempo.
Bisognerebbe fare formazione alle famiglie, in modo che le stesse possano farla in casa, bisognerebbe fare prevenzione nelle scuole e incentivare con progetti educativi qualificati la prevenzione nelle fasce scolastiche a rischio. La prevenzione andrebbe fatta negli oratori, nelle palestre, negli studi medici, dal dentista, al supermercato, in discoteca. Oltre agli ambienti formali sopra citati la maggiore prevenzione andrebbe fatta per strada. Sembra strana come scelta, ma volenterosi educatori esercitano la loro professione proprio nei punti frequentati maggiormente da ragazzi per fare prevenzione nei loro ambienti.
Odontoiatri fanno “diagnosi e terapie”, igienisti dentali, strutture pubbliche e studi privati fanno “prevenzione”.

Importanza del ruolo interdisciplinare con l’educatore professionale
Nell’ottica di una prestazione preventodontica odontoiatrica diventa necessario per alcune utenze speciali di disagio usufruire della professionalità di un educatore professionale. Ci sono Paesi confinanti che sono all’avanguardia nell’ambito delle politiche educative e sociali (Francia e Australia si avvalgono di queste professionalità in molti ambiti).
La presenza dell’educatore professionale è indispensabile, in quanto solo l’occhio pedagogico riesce a vedere oltre la patologia e, come fatto già in passato da Maria Montessori, rendere più educativa la Medicina, per renderla sempre più umanizzata.

Adolescenza e devianza
L’adolescenza viene genericamente descritta come quella fase dello sviluppo umano collocata fra l’infanzia e l’età adulta. Mentre è genericamente accettato che l’adolescenza abbia inizio con i cambiamenti puberali che, intorno ai 10-12 anni, portano l’individuo ad essere maturo e capace di procreare, è difficile trovare un accordo sulla conclusione di questo periodo di sviluppo. Tale dissenso è principalmente dovuto all’esistenza di molte concettualizzazioni dell’adolescenza che si differenziano per l’enfasi posta sui cambiamenti, sugli obiettivi e sui compiti di natura psicologica e sociale che caratterizzano l’individuo in questa fase, tanto che alcuni autori negano la possibilità di caratterizzare in modo unico questo periodo, affermando invece l’esistenza di diverse adolescenze(1), ossia di diversi percorsi evolutivi determinati dal genere, da variabili culturali e sociali, da fattori psicologici, cognitivi ed emotivi(2).
Al di là di queste differenze, l’adolescenza è principalmente vista come il periodo della conquista dell’autonomia, dell’indipendenza personale, concomitante con lo sviluppo dell’identità e con la consapevolezza di sé. Inoltre, l’individuo diviene parte attiva rispetto alle scelte che riguardano se stesso e, di conseguenza, sente di avere il controllo della propria vita(3). Sappiamo infatti che la dipendenza è elevata nella prima infanzia e tende poi a diminuire con l’età adulta(4).
Spesso gli adolescenti vengono definiti anche “soggetti deboli”(5), e ci si chiede: perché? Quando un soggetto non viene riconosciuto come persona e non viene aiutato e supportato nel suo processo di crescita a livello relazionale si scopre debole perché privo di quelle energie che lo rendono capace di saper fronteggiare gli altri, il mondo e quindi le difficoltà e le scelte che questi gli sottopongono. Tale debolezza porta l’adolescente a sentirsi diverso, diversità che poi spinge a chiudersi in se stessi e a “deviare”(6). Fermarsi a definire con termini quali “ragazzi devianti, ragazzi a rischio” tutti questi soggetti che manifestano la loro debolezza tramite comportamenti non classificabili secondo le normali regole, significa azzardare una classificazione che già orienta l’intervento educativo verso di loro in forma di controllo sociale e, quindi, di intervento repressivo, e non invece in forma di ascolto, di dialogo, di supporto alla crescita(7).

Disadattamento e devianza
Il disadattamento nasce come espressione e comunicazione della mancata realizzazione di una “attiva e creativa relazione dell’uomo con i suoi simili, con se stesso, con la natura”(8).
“Disadattata”, perciò, viene considerata una persona potenzialmente normale e priva di danni organici provocati da determinanti psicologiche irreversibili, ma che per una molteplicità di condizioni, incontra difficoltà nei processi di adattamento all’ambiente familiare, sociale, scolastico(9). Il disadattamento dunque, è una condizione in cui può incorrere chiunque e non è una prerogativa delle classi più umili. Oggi questo disadattamento sta portando spesso a un malessere esistenziale. Nel caso degli adolescenti, il disadattamento si manifesta principalmente a scuola e rappresenta proprio la difficoltà da parte dell’alunno di realizzare una positiva interazione con la realtà scuola per l’intervento di condizioni sfavorevoli(10).
La devianza invece, è un grido di allarme, è un disperato bisogno di essere riconosciuto e di dimostrare di esistere; è un altro dei modi, delle potenzialità e delle possibilità di comunicazione del disagio degli esseri umani. Questo vale soprattutto per gli adolescenti. Per il soggetto dal comportamento deviante, tale scelta è una modalità per rendere più evidente il suo messaggio, per affermare e difendere la sua identità. Deviare è l’azione che egli compie alla luce di una idea costruita in ordine al proprio progetto di vita. Devianti, in questo senso, sono gli innovatori che in ogni epoca si scostano dalle posizioni più comuni, quelle più frequenti nella cultura dell’epoca in cui essi vivono, e offrono il loro apporto all’evoluzione culturale dell’umanità(11). Il ragazzo devia perché ha la necessità di rispondere alla propria ricerca di significato che non sempre corrisponde a quello che l’adulto desidera per lui(11).
Alle radici della devianza conclamata vi è sempre una violenza che il bambino ha subito dall’adulto.
Il disagio esistenziale, nella sua complessità, rappresenta un modo di crescere del soggetto che esprime il suo bisogno di identità. Disagio, disadattamento e devianza, sono il frutto delle relazioni e dei processi comunicativi fra i soggetti che li producono e coloro che reagiscono con interventi e controlli sociali(12). Sono un grido di aiuto a cui spesso i soggetti preposti all’ascolto rispondono in modo inadeguato(13). Bisogna prendere atto che spesso le situazioni negative possono dipendere dalla cattiva capacità relazionale(14).

Dai fattori di rischio alla prevenzione della devianza
Il rischio si configura come un costrutto complesso, dal momento che evoca connotazioni negative. Sul suo significato e uso convergono attribuzioni diverse, che fanno comunque riferimento a termini come possibilità di eventi indesiderati, o a esiti negativi, o ancora a un complesso di condizioni sociali e ambientali la cui esistenza genera un danno. Tutte le variabili di ordine psicologico, culturale, sociale che anticipano, segnalano e/o favoriscono conseguenze negative sono definite fattori di rischio. Lo studio sui fattori di rischio ha subito nel corso del tempo una trasformazione: in passato, nei termini di influenze prevalentemente individuali o ambientali, successivamente si è sviluppata una prospettiva più dinamica, nella quale è difficile stabilire il peso di ogni fattore. Oggi si è assunta un’impostazione che tende a spiegare il rischio come interazione continua di una molteplicità di fattori, per cui appare improbabile che i fattori di rischio a carico della persona, della famiglia, dell’ambiente sociale, considerati isolatamente, possano dare una spiegazione esaustiva all’equilibrio psicologico del soggetto. Negli ultimi anni si è affermata l’espressione “rischio psicosociale”(15) per indicare una molteplicità di fenomeni che possono essere considerati determinanti, moderatori o precursori del disagio. I diversi percorsi di sviluppo individuale sono quindi il risultato dell’azione di specifici adolescenti che rispondono in maniera differenziati in particolari compiti di sviluppo posti dal contesto in cui vivono. Quindi, per comprendere i comportamenti a rischio in età adolescenziale occorre fare riferimento agli adolescenti e al suo contesto(16). Si tratta di comportamenti che compaiono a questa età e che possono mettere a repentaglio il benessere psicologico, sociale, così come la salute fisica presente futura.
Se i fattori di rischio sono gli elementi che segnalano, favoriscono e anticipano il disagio e che contribuiscono a determinarlo in un quadro multi fattoriale, i fattori di protezione sono quelli che contribuiscono a evitare o attenuare una situazione di disagio o un certo comportamento a rischio(17). Solo recentemente la letteratura ha posto una crescente attenzione ai fattori di protezione(18) che vengono generalmente definiti in diverso modo:
. come situazioni che riducono la possibilità di coinvolgimento nei comportamenti a rischio;
. come fattori che riducono i danni nel caso di coinvolgimento;
. come elementi che moderano gli effetti dei fattori di rischio presenti nell’ambiente(19).

Per esempio, i fattori che, in generale, durante l’adolescenza favoriscono un buon adattamento e sviluppo sono:
. le competenze individuali, cognitive, affettive e relazionali;
. le caratteristiche positive dei genitori;
. la coesione familiare e la buona qualità comunicativa della famiglia;
. la presenza di adulti significativi diversi dalle figure genitoriali e le occasioni di passare a condizione di vita adulta.

Grazie agli effetti dei fattori di protezione, alcuni adolescenti riescono ad avere uno sviluppo positivo, anche se vivono in condizioni sociali o psicologiche negative.
È possibile indicare due differenti tipologie di studi che hanno indagato i fattori di rischio e di protezione nelle dipendenze in adolescenza:
1. studi longitudinali basati su gruppi “normali” di studenti(20);
2. studi su gruppi di soggetti “a rischio”, spesso adolescenti con genitori con dipendenza da alcol o da sostanze(21);

Conclusioni
Dopo tanto aver scritto e analizzato sulle problematiche di prevenzione giovanili, ci rendiamo conto che parlare della percezione della nostra anima non è facile, ci si sente vulnerabili a esternare le proprie emozioni. Troppo spesso cerchiamo di ridurre l’amore a esercizio di seduzione o a sentimento positivo, invece è anche dolore, perdita, abbandono… Chi è capace di insegnare ai propri figli cosa vuol dire lasciare o essere lasciati? Eppure è una delle esperienze più frequenti della vita: quante volte lasciamo (una persona, un oggetto, un luogo, un’idea) o ne subiamo l’abbandono?
In entrambi i casi, le conseguenze più negative sul piano psicologico avvengono se un individuo non è stato educato all’autonomia: è una situazione che si realizza in special modo quando il rapporto di dipendenza genitoriale, tipicamente quello materno (una madre, spesso, tende a trattenere) è più presente e più forte: “Mangia altrimenti non cresci, copriti bene che fuori fa freddo e ti prendi una polmonite, togliti il maglione se no sudi e ti viene un accidenti, lavati i denti se non vuoi che da grande non te ne rimanga nemmeno uno, non bere tutto d’un fiato che ti strozzi…”, ci dicevano i nostri nonni (e ancora oggi non pochi genitori).
Altro che parlar d’amore: intere generazioni si sono tramandate solo strategie per rispondere a bisogni primari, difendersi dai pericoli, tentare di sopravvivere con il progresso economico; la nostra gente si è scoperta analfabeta di relazioni affettive e di sentimenti. In particolar modo, la generazione nata nel secondo dopoguerra si è trovata a dover fare da pioniera, da apripista, rispetto alla necessità di educare i propri figli a crescere dal punto di vista relazionale oltre che cognitivo e comportamentale.
Come risorse possibili non solo le parole, ma anche i silenzi, i pianti, la rabbia, l’euforia, la gioia; se vogliamo crescere come comunità dobbiamo provare a trovare gli antidoti a una secolare afasia emotiva e quel che è più difficile è che siamo costretti a farlo senza poter contare sui maestri o modelli assimilati.
Tra i 50 e i 60 anni si entra in crisi più frequentemente rispetto ad altri momenti della vita e quando si soffre, sopratutto se a dolere è l’anima, si diventa fatalmente egocentrici, si pensa soprattutto e principalmente a se stessi.
Anche la pre-adolescenza e l’adolescenza sono però età in crisi. “Crisi” etimologicamente significa “crescita”, dunque inquietudine e, d’altra parte, “un adolescente non inquieto sarebbe molto inquietante”. Il rischio che corrono quei genitori di mezza età è quindi il tendere a sottovalutare i problemi esistenziali dei figli perché troppo occupati a dare una soluzione ai propri.
Di qui un possibile principio di distacco, un possibile, ulteriore, inceppamento della già incerta comunicazione fra generazioni che porta inesorabilmente all’impossibilità, per un adulto, di capire qualcosa del mondo emotivo di un adolescente.
Invece è proprio l’ascolto del dolore affettivo, prodotto da una fisiologica insicurezza di identità dell’adolescente, che potrebbe dirci molto di più di tante preoccupazione sulle capacità di apprendimento scolastico o sulle performance sportive. “Nessuno conosce nessuno”, scriveva Flaubert. Ma molti di noi hanno trasformato quella denuncia in rassegnazione, accettando che a identificare la nostra comunità sia la rinuncia a capirsi: marchio paradossale della modernizzazione di un popolo cresciuto con il mito della comunicazione.
I figli cercano segnali di fumo per credere che ci sia ancora vita negli adulti nonostante le loro fughe, i loro reiterati tentativi di occuparsi di altro. Quei figli hanno bisogno di essere incrociati non da immagini o da ombre, ma da adulti reali, capaci di essere per loro un riferimento.
L’antidoto all’indifferenza che investe l’adolescenza e la giovinezza è, dunque, quella forma di curiosità per le persone e le cose che consente di stabilire un contatto, di parlare con loro, non di loro o semplicemente a loro: si chiama, appunto, passione ed è un profondo, umano straordinario strumento di conoscenza di sé e del mondo.
Un salvavita che va impollinato giorno dopo giorno per tutto il tempo della crescita.
Tutti lo possono fare: ognuno di noi, qualsiasi sia l’età, il sesso, il ruolo sociale(22).

 

Bibliografia
1. M.U. Ungar, “The importance of parents and other caregivers to the resilience of high- risk adolescents, Family Process”, 2004. pp. 23-41.
2. Atti II Convegno Nazionale, Udine 2007, pp. 2 L.A. Sroufe, Lo sviluppo della psicopa. pp. 251-268.
3. H. 1 S. Bonino, E. Cattellino, S. Ciariano, Adolescenti e rischio, Giunti, Firenze 2003.
J. SPEAR, Autonomia e adolescenza, PHN, Roma 2004, pp. 144- 152
4. A. Couyoumdjian, R. Baiocco, C. Del Miglio, Adolescenti e nuove dipendenze, Laterza, Bari 2006
5. S. Calaprice, Alla ricerca di identità, La Scuola, Brescia 2004.
6 Ibidem.
7. S. Calaprice Muschitiello, Integrare, in C. La Neve (a cura) Vivere in città, Brescia 2002, p. 148.
8. G. Vico, Disadattamento, La Scuola, Brescia 1982.
9 Ibidem.
10. S. Calaprice, Alla ricerca di identità, La Scuola, Brescia 2004, p. 75.
11. A. Mangano, A.M. Salomon, La devianza dei minori come problema educativo, Lacaita, Mandria- Bari- Roma 1996, p. 8.
12. G. Vico, Pedagogia della persona e devianza negli attuali meandri culturali, in Pedagogia e Vita, n.1 gennaio, febbraio 1993, La Scuola, Brescia, p. 46.
13. G. Vico, Educazione e devianza, p. 14. Il controllo sociale è un insieme di istituzioni collettive e di mezzi di intervento capaci di determinare sanzioni positive e negative su devianti e criminali al fine di prevenire la devianza e accelerare la conformità verso un nuovo sistema normativo e di valori.
14. G. Massaro, L’educazione personalistica per un più complesso senso della responsabilità, Laterza, Bari 2004.
15. S. Calaprice, Alla ricerca di identità. Pag. 76.
16. A. Couyoumdjian, R. Baiocco, C. Del Miglio, Adolescenti e nuove dipendenze.Laterza, Bari 2006 p.76.
17. E. Scabini, V. Cigoli, Il Famigliare, Cortina, Milano 2000.
18. R. Jessor, M.S. Tubin, F.M. Costa, Protective factors in adolescent health behaviour, Journal of Personality and Social Psychology, 1998. pp. 788- 800.
19. A. Couyoumdjian, R. Baiocco, C. Del Miglio, Adolescenti e nuove dipendenze. Laterza,Bari2006.
E. Cattellino, E. Calandri, S. Bonino, Il contributo della struttura e del funzionamento della famiglia nella promozione del benessere di adolescenti di diverse fasce d’età, Età evolutiva, Roma 20.01. pp.49- 60.
20. Cfr.P. Crepet, Voi, Noi.
21. P.Calzolaio,”Vecchie e nuove dipendenze in adolescenza”tesi di laurea.Bari 2008
22. Capone Cesare – Corriere della Sera (4 novembre 1997 ) p. 035/036.
 

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